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È arrivato il momento delle tasse ambientali

La manovra fiscale potrebbe introdurre una seria tassazione ambientale, che sposterebbe 50 miliardi di tasse dal lavoro alle risorse non rinnovabili, migliorando i conti pubblici, l’ambiente e l’innovazione

Le manovra fiscale di questi mesi potrebbe considerare l’aumento della tassazione ambientale, sia a livello centrale che regionale. Le proposte sono state avanzate già all’inizio anni novanta nel (dimenticato) libro bianco di Jacques Delors, che seguiva il ‘Blueprint for a Green economy‘ di Pearce e altri autori (del 1989), ci sono state poi le conseguenti riforme fiscali ambientali di metà anni ’90 dei paesi nordici (Svezia in primis) e l’ipotesi di carbon tax del primo governo Prodi (arenatasi in parlamento). Qui si suggerisce un intervento che ha il doppio obiettivo di dare una risposta alla crisi e di ridurre le emissioni (un tema dove i mercati sia concorrenziali sia monopolistici ‘falliscono’). Una riforma fiscale orientata alla tassazione ambientale da un lato farebbe aumentare i prezzi dei beni più inquinanti, dall’altro permetterebbe di utilizzare il gettito per stimolare la crescita del Pil e dell’occupazione. Si ragiona quindi su riforme fiscali a gettito invariato, con lo scopo di generare benefici economici e ambientali. I vantaggi economici possono venire dall’innovazione indotta dai maggiori prezzi delle risorse naturali, e dalla maggiore produttività del sistema economico. Sul fronte ambientale abbiamo di fronte a noi le sfide del post Kyoto e l’obiettivo di ridurre le emissioni locali, particolarmente pesanti nelle aree industriali ad alta competitività (distretti, agglomerazioni, etc.).

Queste misure si collocano pienamente dentro l’obiettivo complessivo di spostare il peso fiscale ‘dalle persone alle cose’ e, più in generale, dal lavoro alle rendite. A metà anni ’90 l’enfasi su questa ipotesi di riforma era molto più elevata, anche Giulio Tremonti nei suoi scritti dell’epoca proponeva una simile riforma. Tra i grandi paesi europei, solo l’Italia è rimasta al palo in questo ambito. I paesi nordici sono caratterizzati da varie esperienze (Andersen, 2011), la Francia ha (almeno) una proposta sul tappeto, un paese per anni su posizioni ‘anti Kyoto’ e storicamente non uso a politiche ambientali fiscali come l’Australia sta adottando una carbon tax.

Con la crisi attuale si è assistito a un ‘risveglio’ di attenzione per le riforme fiscali ambientali, sia per trovare gettito aggiuntivo sia per incrementare la competitività sulle base di una ‘crescita verde’ (Ekins e Speck, 2011). All’interno di un recente progetto europeo, il modello macroeconometrico di Cambridge Econometrics è stato utilizzato per formulare scenari degli impatti di varie ipotesi di riciclaggio del gettito: nell’aggregato e per la maggior parte dei paesi non si notano effetti negativi su Pil ed export. L’unico impatto ‘negativo’ è un decremento della produttività, ma derivante da incrementi occupazionali maggiori di quelli del Pil, registrati a seguito del ‘riciclaggio’ del gettito delle tasse ambientali (Andersen ed Ekins, 2009). Rispetto all’evidenza (ex ante) degli anni ’90, più pessimistica, oggi gli impatti delle politiche ambientali fiscali sembrano essere più incoraggianti. Andersen (2011) sulla base di un modello europeo ha analizzato gli impatti delle maggiori riforme fiscali ambientali (Svezia, Finlandia, Danimarca, Regno Unito, Germania) ed evidenzia come ‘well designed policy’ possano aumentare le performance economiche (sempre Svezia in primis, ma anche Germania, Olanda e Finlandia ).

Per l’Italia, la proposta di riforma fiscale ambientale potrebbe riguardare diversi ‘assi’

1. Sulle emissioni inquinanti si potrebbe prevedere:

    • una tassa sui gas serra (“male” pubblico globale), il CO2, che potrebbe coprire i settori ‘non coperti dall’emission trading system (Eu Ets)’. Notiamo anche a corollario come la volatilità del prezzo dei permessi Ets e il suo livello basso non hanno prodotto finora effetti sull’innovazione.

    • una tassa sulle emissioni ‘regionali’ di SOx e NOx

    • una tassa su inquinanti locali molto pervasivi generati soprattutto dalle agglomerazioni industriali (Nmvoc, Pm) e dai settori manifatturieri ‘pesanti’

2. Sulle risorse naturali, in cui diritti di proprietà sono pubblici, si potrebbe prevedere:

    • un aumento degli oneri idrici

    • una tassa su discariche, materiali da costruzione, etc.

    • oneri da escavazione, una tassa su sabbia e ghiaia (aggregate tax)

    • oneri su altre risorse del suolo, rinnovabili e non.

Partendo dal basso livello attuale, con tasse ambientali non energetiche che portano introiti di appena un miliardo di euro, queste misure potrebbero prevedere un innalzamento graduale (ad es. di uno 0,5% di Pil annuo) della tassazione al fine di portarla nel 2017 al 3% del Pil, obiettivo non oneroso e in linea con l’agenda Delors e le esperienze scandinave. L’insieme di queste tasse/imposte a regime potrebbe generare per vari anni 50 miliardi di gettito.

Ora già esistono una serie di azioni fiscali ambientali con gettito ‘riciclato’ (es. tassa sui pesticidi, che finanzia ricerca pubblica; oneri idrici che ‘dovrebbero’ essere usati per azioni di sostenibilità, proposte di tassazione sulle discariche con utilizzo specifico del gettito a fini di sostenibilità ambientale, come quella della regione Emilia Romagna), in ottica di ‘earmarking’. Il quadro è però disorganico e caotico; occorre incrementare i livelli della tassazione, rendere certo il quadro complessivo, coordinare le azioni degli enti decentrati, rendere trasparente e partecipato l’uso del gettito attraverso vere forme di ‘earmarking’ dello stesso, che potrebbe essere anche efficacemente gestito da Trust o Fondazioni di partecipazione con coinvolgimento delle parti sociali.

Il gettito può essere utilizzato in diversi modi. Si propongono tre prospettive.

  1. Riforma fiscale a dividendo economico unico (lavoro). Il gettito viene usato per abbattere il cuneo fiscale (Irpef, contributi) e/o altre imposte quali Irap. Posto che la riduzione del costo del lavoro non è l’unica leva di crescita occupazionale, si può ipotizzare un intervento di fiscalizzazione contributiva o abbattimento Irpef per le classi occupazionali associate a tassi di occupazione ‘più critici’, e per le quali il ‘costo’ del lavoro è più rilevante come variabile, quali i giovani sotto i 30 anni, donne, lavoratori a basse qualifiche. Interventi formativi possono essere finanziati dallo stesso gettito o con fondi complementari pubblici e privati.

  2. Riforma fiscale a doppio dividendo economico (innovazione e lavoro). Metà del gettito è investita nelle riduzioni di cui sopra, metà in finanziamenti a R&S pubblica e privata, per sviluppare tecnologie verdi. Sono somme di R&S rilevanti, che ci avvicinano all’obiettivo di Lisbona, oggi lontano.

Come alternativa, per avere un effetto espansivo più di breve periodo, si potrebbe investire il ‘gettito’ per l’innovazione per il sostegno di progetti delle imprese esportatrici, che sono quelle a maggiore valore aggiunto e presentano anche intensità di eco innovazione superiori. Questa via ‘tedesca’ espanderebbe maggiormente il Pil nel breve periodo e compenserebbe direttamente le imprese soggette alla tassazione, dato che il manifatturiero orientato all’export genera maggiori emissioni.

  1. Riforma fiscale a triplo dividendo (innovazione, lavoro e riduzione del debito). La riduzione di un punto di Pil del debito permette risparmi di interessi passivi per 75 milioni all’anno, reinvestibili in R&S e innovazione.

Come corollario, si potrebbe prendere spunto dalla Climate Change Levy del regno Unito, che presenta come opzione una riduzione dell’80% per le imprese o settori che concordano col governo piani di riduzione delle emissioni, investimenti in efficienza energetica (aggiungiamo, investimenti in R&S e aumenti occupazionali in professioni affini).

Dato il loro livello minimo, quasi nullo in termini di gettito, e i benefici sociali potenziali che può generare, una riforma fiscale ambientale è necessaria, forse più per i benefici economici derivanti dall’uso del gettito. Alcune contro-risposte alle usuali critiche che emergono ogni volta che si propone una azione di questo tipo sono doverose, anche per confrontare questa proposta di generazione di gettito con altre maggiormente discusse.

Gli effetti regressivi sono commisurabili a quelli dell’Iva, che però né induce innovazione (verde) né genera abbattimento delle emissioni. L’abbattimento del costo del lavoro per i lavoratori a bassa intensità di capitale umano o più deboli potrebbe compensare gli effetti regressivi. Gli effetti sulle performance economiche sembrano, sulla base delle valutazioni ex post delle politiche di altri paesi nord europei, positivi, se si disegnano bene le policy.

Gli effetti inflattivi sono intrinseci alla fiscalità verde. È suo obiettivo cambiare i prezzi relativi, favorendo produzione e consumo sostenibili. L’elevatissima inflazione italiana si ha (ora) in assenza di queste tasse, e dipende da scarsa concorrenza nei mercati dei beni e servizi, il cui aumento è un altro obiettivo di politica per la crescita. Per questa ragione, sarebbe stato ancor più efficace introdurre la riforma in periodi deflattivi, durante la crisi, in modo complementare ai Green recovery packages.

Spesso si associano alle tasse verdi costi di competitività: più elevate tasse ambientali, più delocalizzazione verso ‘paradisi’ quali i paesi emergenti con regolamentazioni più lasche. In prima istanza, non pare che i paesi che hanno attuato queste riforme negli anni ’90 soffrano di problemi di competitività. E i problemi di competitività ci sono ora in assenza di queste imposte verdi. Altri sono i motivi. Non nascondiamoci dietro i ‘costi’, del lavoro, dell’ambiente.

È vero che il gettito fiscale potrebbe contrarsi nel lungo periodo per effetto della contrazione della base imponibile (le emissioni si riducono). Ma questo sarebbe un successo ‘ambientale’, e nel breve periodo, che ci interessa ora in modo drammatico, avremmo trovato le risorse per sostenere Pil e occupazione, dentro criteri di piena ‘sostenibilità economico-ambientale’.

La proposta ha quindi, in tempi di sotto-occupazione, più finalità economiche che ambientali. Dovrebbe essere un pezzo fondamentale della riforma più ampia che sposta dal lavoro alle cose e alle rendite il peso della tassazione, per incrementare la domanda, la crescita e la competitività del paese. È un’azione complementare alla politica (liberale!) di tassazione progressiva di rendite e patrimoni finanziari e immobiliari. È uno dei pochi spazi di fiscalità con ampi margini di manovra (aumento delle peso fiscale sul Pil). È un modo per favorire la generazione di sentieri competitivi e sostenibili. È uno dei passi per agganciare il nostro futuro all’Europa non solo finanziariamente, ma nella reale concretezza della ‘politica pubblica’ e fiscale.

Andersen M.S., 2011, Europe’s experience with carbon energy taxation, paper presented at the EAERE 2011 conference, Roma.Andersen, M.S., Ekins, P. (Eds.), 2009, Carbon Taxation: Lessons from Europe , Oxford University Press,Ekins P. Speck S., 2011, Environmental Tax Reforms, Oxford University press.http://www.petre.org.uk/papers.htm (molti lavori dal progetto europeo pETRE)