Da un lato, quelli che pensano che dall’euro debba uscire chi non ha titoli per starci dentro. Dall’altra, l’idea di trattenere tutti dentro una gabbia condivisa. Nello scontro in atto sui destini dell’Europa, si confrontano due opzioni tutte interne a una visione liberal-conservatrice. In entrambe manca la società, e la cittadinanza europea
Negli ultimi 3 mesi l’euro ha registrato una discesa da 1,320 per dollaro a 1,220 segnalando il rafforzarsi delle voci sulle crescenti difficoltà di tenuta dell’eurozona. Venerdì della scorsa settimana il presidente della Bce, Mario Draghi, ha con forza affermato che l’euro è irreversibile e la Banca è pronta a fare tutto il necessario per salvare la moneta unica. Nonostante il sostegno di Hollande e Merkel, all’inizio della settimana la Bundesbank, tramite il suo presidente Jens Weidman, ha richiamato la Bce a non superare il suo mandato (finalizzandolo esclusivamente alla stabilità dei prezzi) anche perché un’unione politica in Europa non è pensabile nel futuro immediato. La posizione intransigente della Banca centrale tedesca, affiancata ora anche dal ministro dell’economia tedesco, si è riflessa oggi (giovedì 2 agosto) nelle decisioni del consiglio direttivo della Bce, che sostanzialmente hanno rinviato nel tempo qualsiasi prospettiva di attivazione dei salvataggi Efsm e Esm. È un segnale che la visione di Draghi sul ruolo e sugli sviluppi dell’euro non è ancora accolta come egemone all’interno del blocco conservatore europeo. La nota che segue si propone di delineare il pensiero di Draghi a questo riguardo ripercorrendo le sue dichiarazioni pubbliche nel corso di questo (scarso) primo anno della sua permanenza a capo della Bce.
Venerdì della scorsa settimana il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ha assunto una netta posizione in difesa dell’euro. L’affermazione di Draghi che “within our mandate, the Ecb is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough” (26.07.2012), in un momento in cui montavano i dubbi sulla sostenibilità dell’eurozona nell’attuale configurazione, è apparsa una “novità” importante quanto inaspettata.
Fermo restando l’apprezzamento per i benefici che possono provenire dall’allentamento della pressione sui titoli pubblici spagnoli e italiani la vicenda si presta ad alcune considerazioni sul modo in cui – in un mondo ipermediatico la cui memoria è limitata a pochi mesi, se non settimane – è stata data per “nuova” una linea della presidenza Draghi ripetutamente ribadita nella forma e nella sostanza in questo suo primo anno di presidenza. Non richiamare l’attenzione sul Draghi-pensiero complessivo, e quindi sul significato che questa rassicurazione ha per il futuro dell’area, significa non comprendere il senso dell’azione delle autorità monetarie europee per uscire dalla crisi. Non sottoporre a discussione questa dimensione del dibattito politico è una rinuncia a fornire quella essenziale informazione pubblica il cui “furto” è stato così efficacemente denunciato recentemente sulle pagine del manifesto.
Nel suo primo anno di presidenza alla Bce, Draghi non ha mancato di riconoscere che divergenze nello sviluppo economico tra i diversi paesi dell’eurozona è un fatto normale sia per le loro diverse condizioni iniziali, sia per le loro diverse politiche perseguite. Gli squilibri che ne sono seguiti sono spiegati dalla “insufficient fiscal discipline, financial excesses, failure to implement structural reforms especially, but not exclusively, in the labour and product markets and significant competitiveness losses” (25.04.2012). Le difficoltà delle bilance dei pagamenti non sarebbero altro che la manifestazione degli squilibri macroeconomici strutturali per cui non ha senso “leaving the euro area, devaluing your currency, you create a big inflation, and at the end of that road, the country would have to undertake the same reforms that were due to begin with, but in a much weaker position”. (14.11.2011)
È anche esplicita la ricetta di politica economica: la stabilità dell’area va garantita attraverso politiche “nazionali” di riforma strutturale per favorire la crescita (ovviamente dal lato dell’offerta: “to facilitate entrepreneurial activities, the start-up of new firms and job creation”(25.4.2012)) centrate, come noto, sulla liberalizzazione del mercato dei prodotti, sulla rimozione degli impedimenti burocratici, sulla flessibilità del mercato del lavoro e su regole fiscali favorevoli alla crescita. (15.6.2012). Politiche nazionali che risultano rafforzate dai vincoli fiscali posti a livello europeo (“six pack”, Semestre Europeo, Euro Plus Pact). Non c’è contraddizione tra austerità fiscale, crescita, competitività e creazione di occupazione; per quanto l’azione di consolidamento fiscale abbia inevitabili effetti recessivi nel breve periodo, è il miglioramento dei conti pubblici e le riforme strutturali ad essere l’unica via per rilanciare la crescita e l’occupazione nel lungo periodo. Siamo in un contesto in cui “the economic policies of euro area countries are, ultimately, domestic policies for the euro area” (25.4.2012); ovvero, lo dobbiamo fare per l’Europa perchè l’Europa (delle politiche dell’offerta) ha deciso che questa è l’unica via.
La valutazione di Draghi è che si siano fatti notevoli passi avanti nella direzione della stabilità dell’area euro e quindi di una vera unione monetaria. La valutazione positiva riguarda anche la politica monetaria non solo per aver garantito l’obiettivo canonico della stabilità dei prezzi, ma soprattutto per essersi dimostrata una gestione intelligente e innovativa nel contrastare la difficile situazione di illiquidità in cui si sono venute a trovare le banche europee. L’impegno maggiore dell’azione monetaria della Bce è stato appunto rivolto al loro risanamento senza voler intervenire nelle scelte strategiche dell’utilizzo dei fondi resi loro disponibili. Ma anche a livello di politiche nazionali si sono registrati evidenti risultati positivi in termini di una ricercata maggiore solidità della finanza pubblica e di più incisive riforme strutturali per la crescita. Anche l’intervento a livello dell’Unione con la predisposizione e l’attuazione dell’Efsf si è mossa nella direzione di una struttura istituzionale dell’eurozona più rafforzata. È in questo contesto che viene posta l’esigenza del trasferimento della sovranità a un livello superiore in modo che le decisioni possano essere prese “efficiently and effectively by accounting for interlinkages and spillovers … If legitimacy is fully ensured at all levels, the policy assignment question can be answered on grounds of policy optimality”, dando per scontato l’obiettivo da ottimizzare. Altrettanto inevitabile è la creazione di una entità sovranazionale (un’unione politica, fiscale e finanziaria) poiché, in una realtà globalizzata, “it is precisely by sharing sovereignty that countries can better preserve it. In the long term, the euro must be based on a greater degree of integration.”(21.7.2012)
Il risultato è un’eurozona dalla quale nessuno ha motivo di uscire (“leaving the euro area and having the possibility to devalue their own currency would not improve anything. It would not remove the need for reform. In fact, the consequences of leaving the euro area would be high inflation and instability – and, for the foreseeable future, nobody would lend Greece the money it needed.” (23.3.2012)) e chi vi partecipa è inevitabilmente costretto a rispettare le regole di “buon comportamento” come stanno dimostrando tutti i paesi in difficoltà economiche e finanziarie (09.07.2012; 26.06.2012). È questa la prospettiva dell’euro che Draghi si è impegnato a difendere con tutti i mezzi a sua disposizione (“The euro is irrevocable! (21.7.2012))”, una costruzione istituzionale che nella sua visione rappresenta il miglior meccanismo per un disciplinato funzionamento dell’economia (e della società) europea. Il confronto, ampiamente evidenziato dai media, con i forti bastioni del conservatorismo germanico arroccato intorno alla Bundesbank, appare allora come l’iniziativa urgente e necessaria per convincere una parte decisiva della dirigenza economica e politica europea che questa è la prospettiva egemonica intorno alla quale anch’essa dovrebbe convergere.
Nell’alternativa che la classe dirigente europea liberal-conservatrice si pone tra escludere dall’eurozona chi non ha i titoli per parteciparvi (e forse mai li avrà) e trattenere tutti al suo interno in quanto convinti nella forma e nella sostanza delle regole statuite, quest’ultima è la linea (alla quale sta aderendo la stessa Merkel, nonostante le difficoltà interne) che Draghi ritiene debba esser perseguita per il più rapido inserimento della società europea nell’economia globale. “Policy adjustment in the euro area takes place under market pressures, … The schedule of regaining full market access within a few years applies here too. Therefore, perseverance in bold and necessary reforms is crucial. A critical success factor is ownership of the programmes by governments, parliaments and ultimately the citizens of the countries concerned. An essential precondition for ownership is that policy-makers communicate clearly about the economic rationale for adjustment. As I have suggested, this means taking a critical view of the past and an objective view of the future. This process has started.” (9.7.2012) E non bisogna aver paura degli “streets” (dell’esperienza greca): “Some measures are directly targeted to enhance competitiveness and job creation. Others foresee a radical fiscal consolidation. The two are very complementary to ensure a return to growth after the unavoidable contraction in economic activity.” (22.2.2012).
Ma la società europea della visione di Draghi non è quella di una società impegnata nel dare una risposta condivisa alle necessità di protezione sociale universale, alla creazione di condizioni per una piena occupazione stabile e dignitosa, all’estensione universale dei diritti umani e civili. Su questo il suo pensiero è molto trasparente (e tranquillizzante per i conservatori europei) poiché non manca occasione per esplicitare la sua convinzione che “the old European welfare state model is in fact dead” (23.3.2012) essendosi esaurito a causa della “concorrenza crescente dei paesi emergenti, la riorganizzazione dei processi produttivi su base globale, la rapidità dell’innovazione, la crescente frammentarietà dei percorsi lavorativi sempre meno legati al riferimento di un “posto fisso”, la maggiore instabilità dei nuclei familiari, l’abbassamento della fertilità, la flessione prospettica delle forze di lavoro, l’invecchiamento della popolazione”, e quindi incompatibile con il processo di globalizzazione in atto che ha mutato significativamente la “configurazione dei rischi affrontati dagli individui nel corso della loro vita”, senza peraltro argomentare perché i nuovi rischi debbano essere affrontati individualmente e non più attraverso forme di solidarietà sociale. Nemmeno particolarmente incisiva è l’analisi che accompagna l’affermazione che “the European social model has already gone when we see the youth unemployment rates prevailing in some countries” attribuendo alle sole riforme dal lato dell’offerta il compito di “to increase employment, especially youth employment, and therefore expenditure and consumption” (22.2.2012) Ha, infine, un sapore di pura retorica l’esortazione “Collectively we can compete more effectively in the global economy. Collectively we can better support growth and job creation. And collectively we can preserve our common European values of fairness, social cohesion and social progress”. (15.6.2012)
Si deve dare atto a Draghi di chiarezza sia nella gestione tecnica di breve periodo che nelle prospettive di lungo periodo di una realtà sociale che sta contribuendo a costruire e al cui compito non è stato eletto. Dal punto di vista personale è comprensibile il richiamo di gioventù al magistero di Federico Caffè così come la sua rivendicazione “a scoprire sé stessi” secondo l’insegnamento del maestro. Ma è proprio la libertà – teorica e morale – con la quale reinterpreta gli “strumenti” per intervenire sul processo sociale che rende difficile comprendere il richiamo al pensiero di Caffè e alla sua tensione ideale stante l’assenza di qualsiasi nozione di “cittadinanza (europea)” nella prospettiva che orienta la sua azione. Ancor più stridenti risultano a questo riguardo le ripetute affermazioni – del genere There is not alternative thatcheriano – che costellano le sue interviste dove si ribadisce essere le regole dell’economia a dover dettar legge sui valori e le aspirazioni presenti nella società: “But in times of severe financial constraints, there is no other choice than to address the structural losses in competitiveness in an urgent and decisive manner”. (13.3.2012) Do you see any alternative? (14.11.2011)
La chiarezza con la quale si esprime uno dei più importanti pilastri della politica economica europea – non male è la battuta che The Prussian element is a good symbol of the ECB’s key task (23.3.2012) – è, se ce ne fosse bisogno, un elemento che rafforza la consapevolezza del consolidarsi nella classe dirigente europea (e americana) di una soluzione in cui è inevitabile la subordinazione dei valori e dei bisogni sociali alle esigenze dell’efficienza economica. Il tentativo di aggregare le forze conservatrici attorno a questa prospettiva di lungo periodo non dovrebbe lasciare dubbi ai cittadini europei (italiani, degli altri paesi dell’eurozona e di quelli del resto dell’Unione) che il processo di riaggiustamento finanziario avviato e condotto sotto una simile guida non potrà che riprodurre una società ancor più ineguale di quanto lo è quella attuale. Per i cittadini europei ci dev’essere un’alternativa, ma dev’esserci anche una seria volontà di costruirla.