Il sistema pensionistico è quello che determina la vita e la morte delle persone. Si tratta insomma del più rilevante tra i temi politici. Andrebbe affrontato con rispetto e cautela e non con il disprezzo e la superficialità delle discussioni attuali
Si discute di bilanci e di sviluppo, di tagli ai servizi e all’assistenza, di sostenibilità del sistema pensionistico, di linee sindacali. Ci sono però aspetti demografici, pensionistici, assicurativi che saranno certo notissimi ai potenti che decideranno realmente chi colpire e chi difendere, e come, e in che prospettiva agire, ma che mi sembrano assenti dalla discussione pubblica.
Tendenze demografiche e loro conseguenze
Tutti parlano dell’allungamento dell’attesa di vita e della necessità di ritardare l’età della pensione per rendere il sistema sostenibile. In genere si replica, giustamente, che bisogna guardare alla lunghezza della vita in buona salute e che, soprattutto per i lavori manuali, dopo i 50 nessuno ti assume più e che alzare l’età di pensione non vuol dire far lavorare più a lungo ma solo pagare più tardi. Ma le cose non stanno proprio così.
È facile scoprire dai siti Istat e Inps che l’attesa di vita delle donne da cinque anni è sostanzialmente ferma: è diminuita per qualche anno, poi è aumentata di nuovo, oltre i livelli precedenti, ma, tendenzialmente, non cresce più. Certo, l’attesa di vita dei vecchi e dei grandi vecchi, oltre i 65 e oltre i 75, è alta. Ma, quelli, in pensione ci sono già, e ci sarebbero anche nell’ipotesi di allungamento. Oltre i 65 la differenza tra donne e uomini è modesta: di un paio di anni. La differenza alla nascita, tripla, dipende dalla maggiore mortalità degli uomini prima dei 65. Ed è una differenza che si riduce, e non perché migliorino le previsioni per gli uomini. Ora anche la mortalità delle donne in età di lavoro sta aumentando per la somiglianza crescente degli stili di vita e delle attività. Se peggiorano l’occupazione, la sicurezza, le condizioni di vita, il sistema sanitario, il welfare, è ovvio che i poveri tornino a morire. Nel medio periodo, quando noi vecchi attuali non ci saremo, il problema dei vecchi avrà trovato la soluzione finale.
Non è questa però la sola cosa di cui non si parla. Davanti alla morte non siamo tutti uguali. La qualità dei dati negli ultimi anni è peggiorata e non si leggono più studi complessivi. Ma il laboratorio Riccardo Revelli, fondato da Bruno Contini, ha elaborato un sistema di uso dei dati Inps, che si chiama Whip (Work histories Italian panel) da cui, con qualche problema di discrepanza dai dati Istat, risulta confermata la differenza di attesa di vita tra professioni. I militari, i professori, i dirigenti, gli impiegati, campano più dei metalmeccanici, degli edili, dei contadini – non solo dei lavori definiti usuranti.
Se col sistema a ripartizione in cui le caratteristiche universalistiche e solidaristiche erano prevalenti su quelle assicurative e con età di pensionamento più basse, con le retribuzioni in aumento e il welfare in espansione, nessuno aveva pagato personalmente ciò che prendeva e poteva ringraziare i lavoratori in attività che lo mantenevano, ora, con le retribuzioni e le pensioni in riduzione, il ragionamento sulla vita che si allunga, per le professioni che muoiono prima, è veramente una beffa. Tu paghi; se arrivi a prenderla hai una pensione che a mala pena permette la sussistenza, purché abbia ereditato una casa e non abbia genitori e figli da mantenere; e poi vai felice in un loculo o in un forno con la soddisfazione di aver contribuito a ripianare il deficit del fondo per i dirigenti. Verrebbe da pensare a un sistema bonus/malus alla rovescia in cui, su base individuale – contabilizzando eventi e caratteristiche negative – o professionale, chi campa meno o va in pensione prima o prende di più. Uno i soldi che ha pagato, individualmente o come gruppo, li rivuole. Naturalmente non bisogna scherzare con lo stato corporativo. Se la pensione andasse per professione, esplicitamente, i forti riuscirebbero a schiacciare i deboli ancora di più. Ma ora, senza dirlo, i meno ricchi pagano la pensione dei più ricchi e dei lavoratori autonomi, e questo non è bello. Onorato Castellino, studioso importante del sistema pensionistico, usava dire che si può passare da un sistema a contribuzione a uno a ripartizione in un giorno, perché si liberano risorse, ma che il passaggio inverso richiede da mezzo secolo a un secolo a seconda delle condizioni del mercato. Se si vuole davvero capitalizzare l’Inps, la gestione del suo attivo, al netto dell’assistenza, dovrebbe essere al centro della discussione politica, e non lo è.
Il livello delle pensioni
All’inizio degli anni ’80 davvero il sistema pensionistico era insostenibile. Il sistema pensionistico e tutto il welfare erano il risultato della crescita dei salari e delle lotte sociali. Nessun governo avrebbe potuto lasciare i vecchi nella miseria del vecchio mondo contadino mentre i figli producevano ricchezza nell’industria. Tutto è stato appeso all’industria che cresceva e ai lavoratori dell’industria che aumentavano in numero e guadagnavano di più. Ricordiamoci che i primi scioperi alla Fiat, nel ’67, sono stati per le pensioni e che il Sistema sanitario nazionale, inizialmente, è stato pagato dai soli lavoratori dipendenti. È stata creata la figura dell’invalido sociale per dare un reddito alle persone troppo vecchie e troppo poco istruite per essere impiegabili nel mondo moderno. Ci sono stati i prestiti a tasso fisso, dieci punti più basso dell’inflazione negli anni in cui era a due cifre, per consentire ai mezzadri di pagare le terre ai padroni, che sono stati, in sostanza un finanziamento pubblico ai proprietari. Si sono sommati vecchi privilegi e nuova ricchezza per il pubblico impiego, di cui tradizionalmente tutti i governi volevano il consenso. L’andamento delle pensioni dei primi anni ’80 non era estrapolabile senza crolli.
Ma in questi trent’anni i privilegi maggiori del pubblico impiego sono stati aboliti – anzi adesso tutti vogliono affamare non solo lo stato ma anche i suoi dipendenti – l’età di pensionamento è salita, c’è stato il passaggio dal sistema a ripartizione a quello a contribuzione, che ha coinciso con il ristagno economico e con il precariato. Non dovremmo riportare i vecchi alla miseria del vecchio mondo contadino per non farli stare meglio dei giovani; ma è quello che stiamo facendo. Per ora le conseguenze dei mutamenti non sono diffusamente tragiche perché anche i meno abbienti vivono della ricchezza accumulata quando tutto cresceva. Ma già i segnali sono evidenti e preoccupanti.
Come gli studi sulle pensioni di 30 anni fa (quaderni Ires Cgil Piemonte di Giorgio Peruzio) mostravano la insostenibilità per eccesso, così ora si registra una diminuzione preoccupante delle pensioni di vecchiaia, mentre restano stabili quelle di anzianità. Quelli che vanno in pensione appena giuridicamente possono lo fanno perché hanno avuto una vita contributiva abbastanza lunga e ben retribuita da generare un reddito che in media non diminuisce. Quelli che vanno in pensione il più tardi possibile non hanno contribuito abbastanza, hanno una retribuzione finale bassa o nulla e perciò una pensione media in caduta. L’insufficienza del reddito da pensione non è solo uno spauracchio che riguarda il futuro dei giovani. È già un problema attuale.
Pubblico e privato
Quando c’è stato il passaggio al sistema pensionistico a contribuzione tutti sapevano, anche se non lo dicevano esplicitamente, che avrebbe comportato una caduta netta delle pensioni. Lo si faceva per questo! La presentazione esplicita è stata che, con l’aumento dell’attesa di vita e quindi con l’aumento del periodo di erogazione delle pensioni, e con la diminuzione delle persone in età di lavoro, aumentava troppo il costo per gli attivi del mantenimento degli inattivi. La transizione demografica genera prima un abbassamento del tasso di dipendenza, con effetti espansivi, e poi un irreversibile innalzamento, con effetti recessivi. Si trascurava di dire che l’immigrazione di giovani in età di lavoro diminuisce il tasso di dipendenza, come è avvenuto e avverrà, e che, alla fine il tasso di dipendenza dipende, oltre che dalla durata della vita, dalla capacità di creare posti di lavoro, perché i lavoratori si trovano sempre se si fanno le scelte giuste di politica sociale. Certo, un paese non può aumentare indefinitamente la propria popolazione e, alla fine, se mediamente si vive di più – ma questo non avverrà per sempre, come abbiamo visto – non c’è immigrazione che basti.
Perciò bisognava creare il secondo pilastro: le assicurazioni private, volontarie, facilitate dal conferimento del Tfr a un fondo pensioni. Sullo sfondo c’era l’idea che la mancanza d’investitori istituzionali – i fondi pensioni, appunto – fosse un grave freno al capitalismo italiano. Naturalmente si poteva obbiettare che anche le contribuzioni volontarie pesano sul bilancio e che se i soldi non bastano, non li si può creare per metterli nel fondo pensioni. Se si voleva mantenere la libertà di scelta tra consumo e risparmio non si poteva lasciare la possibilità di un contributo aggiuntivo all’Inps? La replica era che nei fondi s’investe e i soldi investiti crescono mentre l’Inps è come il materasso o il mattone: col sistema a contribuzione, quello che ci hai messo ti restituisce, con una regola nota.
Da allora è venuto giù tutto. Nessuno si illude più che il mercato sia onnisciente e la crescita infinita. Ma tutto continua come prima. Chi può, nel contratto aziendale – Luxottica, Ferrari, treni – o di categoria – commercio, chimici – mette una pensione o un’assicurazione sanitaria privata. Se gli stati e l’Unione europea non regolano la finanza, non costruiscono un governo europeo, tutti si aggrappano alla più vicina zattera di salvataggio.
Per ora la parte privata del welfare, difficile da quantificare, è poca cosa rispetto all’Inps, che resta la vera difesa dei vecchi dalla miseria e al Sistema sanitario nazionale, che è la vera difesa dei giovani e dei vecchi dalla malattia e dalla morte, malgrado falle e code. Per questo qualunque progetto che tocchi i consumi e la salute deve centrarsi sull’Inps e sul Ssn; sull’uso dell’attivo della parte generale dell’Inps; sulla qualità e sicurezza del lavoro, e il controllo dei costi e la sicurezza del finanziamento del Ssn. Se, seguendo la deriva americana, ancora incredibilmente presente, di fatto, in Italia, si dovesse passare in tutto o in parte alla sanità privata, davvero i soldi non basterebbero alla gran maggioranza degli italiani e la mortalità salirebbe alla grande.
Se il sistema pensionistico e sanitario universalistico regge, la linea dei sindacati che puntano a gestire le risorse assicurative private risulterà debolissima, perché avranno poco o nulla da prendere e da dare. Se il sistema universalistico si scardinerà, la linea aziendale e privatistica avrà uno spazio, ma limitato alle aziende medie, e lascerà in condizioni americane il grosso dei lavoratori, italiani e stranieri, precari, dipendenti di piccole e piccolissime aziende o di cooperative e autonomi.
La negatività del sistema privato, oltre che nella assai parziale copertura, sta nel fatto che costa di più, se segue il modello americano, che non incentiva la prevenzione, incoraggia la finanziarizzazione di aziende e sindacati e fa correre ai dipendenti licenziati il rischio aggiuntivo della perdita di pensione e sanità.
Principi e prospettive
Forse è ottimistico pensare che, come ho scritto all’inizio, i potenti abbiano davvero in mente un quadro sociale realistico e una sua coerente trasformazione. Forse cercano sol di fare cassa e di difendere gli interessi propri, dei propri amici, del proprio partito. Cercano di ricominciare con gli affari e la finanza dove si erano interrotti tre anni fa, come se il crollo non fosse ancora in atto, accentuando il trasferimento di ricchezza dai poveri ai ricchi e diminuendo i servizi pubblici, inclusa la pubblica istruzione.
In sostanza sembrano voler percorrere in senso inverso la strada degli anni ’50 e ’60: ricondurre i giovani non ricchi di famiglia a un livello di povertà e di ignoranza sufficiente a trasformarli in servi urbani, dato che la servitù della gleba viene sostituita dal lavoro degli stranieri precari.
I lavoratori, i giovani che vorrebbero diventarlo, i sindacati, le associazioni, i partiti che li rappresentano dovrebbero avere, almeno loro, un’idea complessiva della società, delle sue tendenze, della sua possibile trasformazione. Almeno dovrebbero esplicitare e condividere i principi su cui fondare la propria azione, senza illudersi che ciò che è stato conquistato non possa essere perduto. Anzi sapendo che molto è già stato perduto; che si corre il rischio di ritrovarsi in una condizione in cui le uniche soluzioni rapide sono di destra: noi contro loro; gli italiani contro gli stranieri; i padani contro i terroni; il nordest contro il nordovest; chi ha un lavoro contro chi non lo ha; chi ha la casa contro chi non ha neppure i soldi per affittarla.
Sbilanciamoci, con il contropiano e gli interventi sulla rotta d’Europa ha il merito di avere imboccato la strada di una discussione esplicita sui principi e le prospettive.