A proposito della pubblicità Benetton, di una discussione di qualche decennio fa, e della necessità di guardare all’occupazione giovanile con una prospettiva lunga
Per fortuna – vorrei cominciare così – troviamo in questi giorni nei quotidiani le pagine pubblicitarie di United Colors of Benetton con immagini di ragazze e ragazzi e una scritta non immediatamente comprensibile: UNEMPLOYEE OF THE YEAR. Viene segnalato un concorso per giovani senza lavoro con la prospettiva -per cento vincitori- di ricevere 5.000 euro come finanziamento per realizzare un loro progetto. Nella pagina, in basso, un dato: al mondo sono quasi cento milioni i giovani sotto i trent’anni in cerca di lavoro.
Dire per fortuna suona ovviamente insensato; ma vuole essere provocatorio. Rendiamoci conto di questi numeri, della dimensione mondiale del problema. In quasi tutte le informazioni che ci vengono fornite il riferimento è alla situazione in Italia, come se il resto non ci riguardasse: un pesante limite nei modi in cui vengono formulate le questioni – e le possibili politiche, iniziative, proposte – sul precariato, la disoccupazione, i “giovani”. Questo riproporre letture “semplificate” non può non preoccuparci. Si tratta della nostra società, delle crescenti disuguaglianze e delle difficili prospettive del nostro vivere quotidiano.
Torno al tema messo al centro di moltissimi dibattiti e proposte della politica: la “creazione di posti di lavoro”. Il problema è via via divenuto visibile in tutti i paesi (e non soltanto nei ben noti ‘casi’ di Irlanda, Grecia, Spagna, Italia). E centrale per tutti coloro che sono in ruoli di decisione, da Obama a Hollande a Monti, a Paul Ryan che, nella sua prima occasione pubblica, appena nominato candidato alla vice presidenza nella campagna per le prossime elezioni, ha promesso di creare dodici milioni di posti di lavoro.
Dunque impegnarsi per questo obbiettivo, la job creation, una questione centrale.
Ma bisognerebbe collocarla “nel contesto”. Ho trovato un articolo (pubblicato sul manifesto nel 1986) in cui si riprendevano due importanti studi usciti in quell’anno in Gran Bretagna. Si diceva: «non ha senso continuare a ragionare in termini di employment society» e anche: «occupazione, disoccupazione, lavoro, sono concetti che vanno storicizzati». Più netta ancora la constatazione che si trattava di «programmare una società dopo il full employment». Nel durissimo periodo della guerra (anni di distruzioni, condizioni di povertà per gran parte della popolazione), c’era bisogno di continuare a costruire macchinari e apparati bellici (un’esigenza che ha portato anche, in quegli anni, a una massiccia immissione di donne nel mondo del lavoro). Negli anni dopo la fine della guerra, la ricostruzione: dunque, ancora occasioni di lavoro. Anche un altro dato: nelle due guerre mondiali si è calcolato si siano avuti dieci milioni di morti, in maggioranza giovani maschi. Lo dico rendendomi conto di quanto possano suonare pesanti queste riflessioni (però non sono “irrilevanti”).
Dobbiamo essere avvertiti, quanto più possibile, della complessità della situazione attuale. Se ci si confronta con l’obbiettivo “creare posti di lavoro” e con i problemi di continuo messi al centro delle analisi e delle politiche: davvero questi dati, queste letture non ci riguardano?
E ancora: nei testi a cui ho fatto riferimento si riconosceva che, alla fine della II guerra mondiale, si era stati capaci di progettare un percorso, di proporre una “cultura” coraggiosamente nuova; di “ripartire”. Ma negli anni settanta e ottanta era necessario “programmare una società dopo il full employment”.
Oggi nel dibattito, nella comunicazione, nelle proposte politiche, nessuna prospettiva che apra a leggere in modi riflessivi, articolati, gli anni che abbiamo davanti. Tutto è collocato – e fermo- nello scenario attuale.
Accenno a due possibili percorsi di riflessione: uno porta a scenari forse ancora più preoccupanti, l’altro può essere positivo. Li propongo insistendo su questo: l‘approccio che continua a « semplificare » prospettive e problemi, non va bene.
Un aspetto lo riassumo utilizzando la parola robot: nelle produzioni industriali, macchinari e strumentazioni utilizzati da tempo, certo molto rilevanti in termini di occupazione. Ma sempre più si realizzano attività nel terziario « delegandole , appunto , a nuove, sofisticate appparecchiature che funzionano insieme a, o del tutto senza, interventi « umani ». Pensiamo a come nuove soluzioni tecnologiche, anche da noi (nelle banche, negli uffici postali, alle biglietterie, nei supermarket) hanno portato a ridurre gli operatori agli sportelli, alle casse. E in molti paesi- in particolare in Giappone e in Corea, ma sempre più anche negli Stati Uniti- si producono robot che svolgono funzioni che non eravamo abituati a considerare sostituibili rispetto a pratiche degli « umani »: moltissime nel settore terziario; ma anche nel « lavoro di cura ». Un riferimento, e potrà sembrare che si tratti di uno scherzo : robot che si occupano degli anziani: un buon settore di investimento, considerate le previsioni sull’allungamento della vita.
Sarebbe bene andare a fondo sui dati e le analisi che affrontano questi processi e portare al centro dell’attenzione gli inevitabili cambiamenti nel mercato del lavoro (ulteriori riduzioni, in molti settori, dei “posti di lavoro”).
Ricordiamoci, anche, che i robot non vengono retribuiti, possono lavorare ventiquattr’ore su ventiquattro, e non scioperano.
Un’altra possibile prospettiva di cui ha senso parlare: negli anni settanta e ottanta si era elaborata e discussa, in un assai articolato dibattito europeo, la possibilità di radicali cambiamenti culturali: si delineava uno scenario che metteva al centro la dimensione dei tempi del vivere. Solo in parte, in alcuni paesi del Nord Europa, si continua a realizzare soluzioni in questa prospettiva. Dovrebbe essere ovvio che non avremo, in futuro, orari e forme di organizzazione tradizionali del “lavoro” (per uomini e per donne, in differenti attività, nelle diverse fasi del corso di vita). E anche, che il “lavorare” non riguarda solo prestazioni retribuite (dunque flussi di reddito e investimenti in beni di consumo e dunque nella produzione, che deve essere anche “competitiva”; questo, il modello a cui si fa riferimento per la ripresa della “crescita”). O considerare che lavoro sono anche attività “fuori mercato”, attività che producono risorse: e qui il bagaglio di riflessioni e di saperi che era stato acquisito sviluppando questa prospettiva andrebbe ripreso con prospettive aggiornate.
Le nostre vite – le vite delle nuove generazioni – organizzate e vissute uscendo dalle categorie contrapposte lavoro/non lavoro, come definite in un’epoca, e in un contesto, improponibili nel presente. Farci i conti è complicato, naturalmente.
E concludo così. Sappiamo come i media e il dibattito pubblico insistano nel trasmettere visioni, del presente e del futuro, preoccupate, tutte negative. Certo, pesantissimi i dati del breve e anche forse del medio termine, con cui bisogna fare i conti. Ma che si continui a ripetere che non se ne uscirà mai, ha senso? Si tratta dei “giovani”: dunque, c’è per loro la prospettiva del longer term. E non tutti sono “bloccati”, senza prospettive, incapaci di reagire. Percentuali forse minoritarie della popolazione: comunque soggetti in qualche modo attivi, possibili “attori” di cambiamenti. Alcuni dati recenti li vorrei richiamare : crescono le domande di coloro che si iscrivono al servizio civile. Crescono i numeri delle presenze nel volontariato. Anche, nuove modalità di creazione di piccole imprese, sperimentazioni con le nuove tecnologie. E quelli che vanno studiare o a lavorare in altri paesi: non è, neppure questo, un aspetto da denunciare come tutto negativo. E non i numeri spaventosi di quanti vivono, ci si ripete, “senza studiare e senza lavorare”.
I livelli di formazione che molti hanno raggiunto, le risorse di cui dispongono, le aspettative. I processi della mobilità a livello mondiale. Le trasformazioni indotte dalle nuove tecnologie. Le “pluralità”, le “diversità”: non sono, queste, da vedere come esperienze individuali: è una dimensione collettiva. Segnano i processi di una fase storica di discontinuità, e certo dirompente e difficile, rispetto ad epoche precedenti.
Ci siamo dentro. Arrivare a capirlo, rendercene conto, sarebbe positivo.