Per non lasciare gli indicatori alternativi confinati in pure esercitazioni statistiche, occorre farli entrare nelle procedure stesse di governo della spesa pubblica
Il contributo di Becchetti e Gallegati su “La crisi del benessere” riapre opportunamente il tema dell’utilizzo degli indicatori di benessere per orientare e misurare le politiche economiche. Il rischio che corriamo, infatti, è che dopo aver varato i 134 indicatori di Benessere Equo e Sostenibile raggruppati nei dodici domini ricordati, l’operazione si riduca alla produzione puramente statistica di un rapporto annuale (ne sono usciti già due e tra poco sarà pronto il terzo) del quale si parla, come dei tanti indicatori Istat, per qualche giorno fino a quando la notizia non viene oscurata dalla prossima più fresca.
Nella società della comunicazione in tempo reale e della sovrabbondanza di notizie, è quasi naturale che le informazioni vengano letteralmente “consumate” e che più che un processo di accumulazione ed elaborazione si verifichi un processo continuo di espulsione per sostituzione.
E’ chiaro che così viene vanificato lo sforzo collettivo fatto da cittadini, esperti, associazioni ed istituzioni che hanno partecipato alla costruzione del Bes, durato alcuni anni, che ha visto l’Italia per una volta all’avanguardia e che vede altri paesi ed istituzioni internazionali impegnati a procedere nella stessa direzione.
Per evitare questo penso occorra aprire una riflessione sul perché si corra questo rischio e soprattutto sul che fare per non sprecare un lavoro prezioso e per renderlo utile per la collettività “soprattutto oggi” nel mezzo della crisi che stiamo attraversando.
Certo l’obiettivo sintetizzabile nello slogan “Oltre il Pil, il Bes” è veramente ambizioso e scalzare dal podio, e soprattutto da quello mediatico, il Pil non è affatto facile. L’idea che il Pil ed il suo incremento costituiscano gli obiettivi fondamentali delle politiche dei governi pervade la società e nasce dalla convinzione che se cresce il Pil ci sono più reddito da distribuire e più risorse da destinare alla spesa pubblica ed ai servizi. Da essa discende, a cascata, quella che la crescita del reddito produce, automaticamente, effetti positivi su tutti gli aspetti della vita delle persone: dalla salute all’istruzione, dal lavoro alla qualità dei servizi e della relazione tra le persone, alla sicurezza, all’ambiente. Siamo, insomma, tutti sotto un “effetto droga”, una vera e propria Pildipendenza, per cui il Pil produce benessere e per avere più benessere abbiamo bisogno di dosi crescenti di Pil.
In realtà è sempre più diffusa la consapevolezza che la crescita del Pil nei paesi sviluppati non toccherà più i ritmi del passato, ma il processo di reale superamento di questa dipendenza sarà necessariamente lungo perché riguarda la sfera politica, quella culturale, quella dei valori di una società.
Importante è, quindi, quello che si riesce a fare per affermare concretamente i nuovi indicatori di benessere.
Qui ci sono due terreni da coltivare. Uno è quello tecnico statistico. Certo se il Bes fosse oggi sintetizzabile in un unico indice magari trimestrale tutto sarebbe più facile ed esso si potrebbe affiancare al Pil per tallonarlo e ridimensionarlo. Ma questo oggi non è possibile. Ho auspicato nel libro “Oltre il Pil” la costruzione di tre macroindicatori (benessere economico, qualità sociale, qualità ambientale), ma ci sono ancora molti problemi tecnici da risolvere. Certo è che occorre intensificare lo sforzo per valorizzare gli indici che misurano le tante facce del benessere ed in questa direzione quello di produrre un numero ridotto di indicatori sintetici più leggibili dai media e dall’opinione pubblica. Sempre in questa direzione potrebbe essere utile, idea questa già emersa nel gruppo di lavoro Istat Cnel, far uscire ogni mese un rapporto tematico, anche per creare l’abitudine a leggere le dodici facce del benessere oltre il Pil.
Ma la cosa più importante è l’uso politico, nel senso di uso per le politiche per cui il Bes è nato. Una società che ridefinisce il concetto di benessere individuando i fattori che lo compongono e gli indicatori che ne forniscono le misure ha due doveri fondamentali: perseguire il miglioramento di quegli indicatori e misurare le scelte politiche in base ai loro effetti.
Quale scopo più nobile della politica se non perseguire il benessere della collettività nel senso ampio e multidimensionale che mira ad una maggiore felicità dei cittadini e che persegue, quindi, contemporaneamente obiettivi quantitativi ed obiettivi qualitativi?
Certo in una fase di crisi come quella che stiamo attraversando in cui per molti aspetti siamo tornati indietro di due decenni queste affermazioni possono sembrare fuori luogo e fuori tempo. Ma è vero proprio il contrario. Dicevo prima che la costruzione del Bes è utile”soprattutto oggi”. Sì, proprio oggi, in un periodo di risorse scarse, è più necessario di ieri utilizzarle nel modo più efficace possibile, scegliendo quali risultati si vogliono raggiungere, facendo precise simulazioni di costi-benefici, misurando poi gli effetti dei provvedimenti adottati. Proprio perché le risorse sono scarse occorre usarle bene!
E questo vale sia a livello nazionale che a livello locale.
A livello nazionale si tratta di far entrare gli indicatori di benessere nelle procedure stesse di governo della spesa pubblica (so che si sta lavorando ad un disegno di legge in proposito) facendo in modo che i provvedimenti indichino i problemi che ci si prefigge di aggredire, i risultati concreti e gli obiettivi che ci si prefigge di raggiungere e gli indicatori che li misurano. Ciò consentirebbe di misurare la congruità dei costi sostenuti in relazione ai benefici attesi e, successivamente, di misurare concretamente il grado di raggiungimento degli obiettivi. Gli indicatori dovrebbero servire a questo se non vogliono restare confinati in pure esercitazioni statistiche.
A livello locale si potrebbe procedere in maniera analoga. Quanti sono i finanziamenti europei, nazionali e regionali destinati allo sviluppo territoriale? E quanti di essi finiscono per non essere utilizzati o per essere destinati a progetti generici di formazione e sviluppo senza obiettivi definiti e misurabili? Ebbene perché allora non prevedere l’utilizzo degli indicatori Bes per misurare la validità dei progetti e per commisurare al grado di raggiungimento dei risultati i finanziamenti? C’è un capitolo, quello delle disuguaglianze che si riscontrano nei diversi domini di benessere, che potrebbe diventare il faro delle politiche pubbliche. Disuguaglianze di genere e di generazione che si accumulano e che in alcuni territori come quello meridionale raggiungono livelli inaccettabili e resi esplosivi dalla crisi. Una ricostruzione dell’azione pubblica e della sua efficacia mirata a ridurre queste disuguaglianze potrebbe fare dei nuovi indicatori la chiave anche per ricostruire speranze nel futuro e fiducia nella politica. Insomma cambiare politica e/per cambiare la politica. Una bella cura per disintossicarci dal Pil.