Democrazia svendesi/ C’è un’oscillazione storica tra il polo di uno Stato liberale tendenzialmente minimale con una funzione pubblica ridotta, che lascia dispiegarsi a pieno gli «animal spirits» acquisitivi e accumulativi, e il polo di uno stato sociale con funzione pubblica estesa
Chiamiamo abitualmente democrazia liberale il regime democratico nel capitalismo. Si sono sempre contrapposte, già nell’800, due tesi: la componente liberale consiste sia nella convivenza con il capitalismo sia nello stato di diritto.
Si tratta di fattori che devono limitare i potenziali eccessi democratici. Nei casi migliori si immagina una felice combinazione dei tre fattori socio-istituzionali in gioco. L’altra tesi invece da più peso, coerentemente con il dettato delle costituzioni più recenti, al fattore democratico e quindi in pratica ipotizza che lo stato liberale debba ed anche possa – senza danno per il capitalismo, anzi salvandolo in un certo senso dai suoi eccessi – crescere fino a diventare stato sociale, come stato cioè in grado di garantire pari opportunità ed espansione delle capacità e delle libertà.
Si accetta in questo caso, pur con qualche preoccupazione, l’aumento del peso del prelievo fiscale, l’allungamento della lista dei diritti sociali e civili da soddisfare, insomma una espansione della funzione pubblica. Sempre nei limiti comunque di quanto richiesto dal processo di accumulazione. La democrazia liberale oscilla storicamente tra il polo di uno stato liberale tendenzialmente minimale con una funzione pubblica ridotta, e che lascia dispiegarsi a pieno gli animal spirits acquisitivi e accumulativi, e il polo di uno stato sociale con funzione pubblica estesa, centralità del nesso fiscale, e prove di governance del processo capitalistico.
I puristi pensano che solo nel primo caso la dizione sia appropriata, mentre considerano il secondo polo come una degenerazione pericolosa. Essi fondano il sociale demo-capitalistico (chiamiamolo così) su alcuni motivi essenziali: la brama di possesso o greed, o il motivo del profitto; l’autonomia dell’individuo come monade asociale; lo stato solo guardiano delle leggi essenziali. All’inizio questi argomenti avevano probabilmente una motivazione principalmente ideologica, antisocialista insomma.
Oggi però si tratta di altro: alle spalle degli argomenti contro una funzione pubblica allargata c’è l’imperativo materiale di aprire o costruire per il capitalismo sempre nuovi mercati, e quindi sempre nuove forme di merce. Nessun bene o risorsa può sfuggire: organi, prodotti culturali vecchi e nuovi, beni virtuali e digitalizzati, conoscenza, capitale sociale, capitale umano anche nelle sue forme più intime e idiosincratiche, e naturalmente tutto ciò che finora è rimasto “in comune”. Tutto deve essere spacchettato, spogliato della sua veste sociale, e reso accessibile al mercato. Il motivo di questa tendenza che non rifiuta carceri e magari pena di morte affidate ai privati, o formazioni militari mercenarie al posto dell’esercito nazionale, o la corruzione su grande scala per ammorbidire le ultime difese non solo dello stato sociale ma anche di diritto, è che una funzione pubblica allargata sottrarrebbe troppi beni al mercato.
E naturalmente a sostegno di questa tesi virulenta c’è l’argomento che il mercato è il migliore allocatore di risorse possibile. Per i beni in questione e tanti altri analoghi per la verità non c’è traccia di una possibile dimostrazione della veridicità dell’assunto, né teorica né empirica.
Le condizioni che il mercato dovrebbe soddisfare per approssimare almeno tale tesi sono troppo esigenti per essere relaistiche ed anzi sarebbero in diretta contraddizione con gli imperativi effettivi di quello, anche per ridere e non solo piangere, chiamiamo turbocapitalismo.
Al contrario si potrebbe segnalare che le privatizzazioni (spacchettamento di parti di funzione pubblica per il mercato) sono state quasi ovunque un enorme affare per il capitalismo delle rendite e della finanza, con la creazione di nuovi oligopoli, abusi di posizione dominante e altre forme di commistione e corruzione specificamente del ceto politico. C’è qui un paradosso interno: si parla di mercato, ma in effetti non si sa bene come spiegare allora il ruolo militante del lobbismo, sia a Washington sia a Bruxelles, cioè la necessaria esistenza di un mercato politico delle decisioni economiche, che surroga e sostituisce il mercato «libero». La corruzione diretta e indiretta dei decisori non è mai lontana e il capitalismo mostra con ciò di dipendere da scelte pubbliche e da finanza pubblica, non di essere capace di fare meglio le cose, una dimostrazione impossibile nella maggior parte dei casi.
Piuttosto si parlerebbe di fallimento del mercato: brutality (come dice Saskia Sassen), corruzione e distorsione di risorse pubbliche sono la condizione per l’attività di mercati importanti, in ogni settore di attività.
Non si tratta di deviazioni dalla norma o dalla normalità, ma di caratteri intrinseci non emendabili. In sostanza, per avere nuovi mercati occorre avere non solo meno stato sociale ma anche meno stato di diritto, e bisogna asservire il più possibile la politica alle esigenze della redditività privata.
Così il momento neolib è la confutazione delle premesse liberali, e mentre il neolib è un arma violenta per l’affermazione di una strategia alla fine antidemocratica, il pensiero liberale non è mai andato oltre una dignitosa difesa di principi, la correzione puntuale di «deviazioni» come mostra tutta la storia dell’antitrust.
Ora si tratta di vedere fino a che punto sia possibile destrutturare la funzione pubblica e quindi tagliare beni essenziali per lo sviluppo, per capacitazioni, per stati di benessere senza danneggiare la democrazia stessa. È semplice immaginare che questa richieda la soddisfazione di livelli minimi essenziali di bisogni collettivi.
Altrimenti viola le proprie promesse e premesse normative e costituzionali, come nei paesi oggi in Europa più devastati dalle terapie neolib di austerità. I livelli di diseguaglianza sempre molto alti e attenuati solo nel trentennio postbellico per l’elevamento generale dei redditi e dei livelli di vita sono un forte limite per processi democratici non meramente rituali e strumentali. Ridurre la funzione pubblica significa ridimensionare la democrazia.
Questo alla fine il sogno non tanto segreto dell’ideologia neolib. Essa rende evidente l’ossimoro di una democrazia liberale che fallisce nel tentativo di trovare un equilibrio tra democrazia e capitale.
La democrazia liberale diventa impossibile e alla fine risulta indifferente o inutile per il capitalismo.
La formula democrazia liberale si è dissolta nelle entropie della globalizzazione e della mercificazione globale. Occorrerebbe trovarne un’altra. Per le ragioni dette oggi la democrazia non è più liberale, e d’altra parte essa non appare all’altezza delle sfide del globale e del tipo di capitalismo con cui dovrebbe convivere. La democrazia ha senso come lavoro alla riduzione delle diseguaglianze locali e globali, e come lavoro per rendere più umano – quale che sia poi la forma concreta – ogni processo, economico e non.
La ricostruzione su basi razionali di una funzione pubblica è al centro di ogni disegno di rilancio del processo democratico, ormai di fatto già molto oltre il quadro di riferimento della democrazia liberale. Che sarebbe stata democratica e liberale se fosse stata capace di «domare il mostro» (Bobbio), ma è qui che è fallita.
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