I crimini internazionali sono tanti, i processi sono pochi. L’effetto della giustizia penale internazionale, sia sotto il profilo repressivo che sotto quello preventivo, è finora stato modesto. Il libro edito da Castelvecchi
I crimini internazionali sono tanti, i processi sono pochi. L’effetto della giustizia penale internazionale, sia sotto il profilo repressivo che sotto quello preventivo, è finora stato modesto. Se confrontiamo il numero delle vittime con il numero degli incriminati, e non c’è partita. Le guerre civili nell’ex–Jugoslavia hanno provocato circa 140 mila morti, i condannati dal Tribunale penale per l’ex Jugoslavia sono stati poco più di 100. Il genocidio in Ruanda ha provocato circa 800 mila morti, i condannati dal Tribunale penale per quel paese sono stati meno di 100. Ancora più magro il bilancio della Corte penale internazionale: difficile stabilire con certezza quante siano state le vittime di crimini internazionali commessi dalla sua istituzione nel 2002, ma aver chiuso solamente cinque processi in 15 anni di lavoro è un ben magro bottino. Più frastagliata la contabilità nei processi svolti dalle magistrature nazionali tramite la giurisdizione universale; ma anche secondo la più ottimistica stima, il numero degli incriminati è inferiore al centinaio.
Sono dati impietosi, proprio perché confrontano l’inconfrontabile: qual è la connessione tra il numero delle vittime e quello dei condannati? Se l’obiettivo principale della giustizia penale internazionale era porre fine all’impunità, esso non è stato finora raggiunto. L’impunità per i crimini internazionali continua a essere assoluta o quasi. Non emerge ancora quel ruolo repressivo e preventivo che avrebbe dovuto indurre i potenti e i loro subordinati ad essere riluttanti dal commettere crimini internazionali. In queste circostanze, gli incriminati diventano dei capri espiatori, scelti a caso tra una massa infinita di criminali che, invece, l’hanno fatta franca.
Si possono difendere i Tribunali internazionali sostenendo che il loro scopo non è tanto infliggere condanne, quanto far sapere ai potenti e ai belligeranti che ci sono degli occhi puntati sui loro comportamenti. Eppure, la minaccia deve essere credibile. Non sorprende che nel caso di conflitti particolarmente cruenti, come quelli in Libia e in Siria, le potenziali vittime abbiano riposto le loro speranze non nei Tribunali, quanto piuttosto nella capacità delle diplomazie di trovare un accordo o nella volontà di qualche potenza di intervenire militarmente.
I casi in cui si sono effettivamente attivati gli strumenti della giustizia penale internazionale, sono stati quelli in cui gli attori più potenti hanno incriminato i più deboli. La vicenda più clamorosa è stata la condanna di Saddam Hussein, ma ugualmente inquietante è stata l’incriminazione di Slobodan Milošević. Nei due episodi, potenze in conflitto militare hanno usato i Tribunali per colpire i propri nemici, assicurandosi che i Tribunali da loro istituiti non potessero indagare sui crimini di guerra da loro commessi. In queste circostanze si è trattato in tutto e per tutto, come a Norimberga, di giustizia dei vincitori. In altri casi, la giustizia è stata esercitata dai forti contro i deboli, chiudendo i conti con relitti politici senza protezione e ormai inutili per tutti. Non solo Augusto Pinochet, ma anche Radovan Karadžić, Hissène Habré e Charles Taylor rientrano in questa categoria.
I casi più clamorosi, tuttavia, non si ritrovano nei processi celebrati, quanto in quelli che nessuno ha avuto voglia e coraggio di allestire. Governi che hanno pianificato e compiuto orrendi crimini sono rimasti indenni solo perché erano troppo potenti e non c’è stato nessun giudice abbastanza coraggioso da avviare una indagine. Le poche volte in cui un giudice è uscito fuori dal coro, le ragioni della politica si sono dimostrate assai più forti di quelle del diritto, e gli ardori di chi aveva troppo a cuore la protezione dei diritti umani sono stati spenti.
Finora è mancato nella giustizia penale internazionale quanto più è stato desiderato dai suoi arditi sostenitori: la possibilità di incriminare gli autori di crimini forti e vincenti, quelli che non hanno ragione di temere la forza delle armi ma che possono perdere legittimità qualora i propri delitti siano stati attestati al di là di ogni ragionevole dubbio da strumenti giudiziari. Il sogno della società civile impegnata a difesa dei diritti umani era vedere i David sconfiggere i Golia con le toghe piuttosto che con le armi. E questo sogno non si è ancora mai avverato.
Ci siamo, tuttavia, finora trovati in un solo caso di un innocente finito nelle maglie della giustizia penale internazionale? C’è il sospetto di un errore giudiziario? Non sembra proprio. Tutte le persone incriminate avevano commesso crimini atroci. La maggior parte degli accusati, con la sola eccezione del tribunale farsesco allestito in Iraq, hanno avuto un equo processo, quel processo che spesso avevano negato alle proprie vittime.
Il fatto che non si possano processare tutti quelli che compiono crimini è una buona ragione per non processarne alcuno? Anche quando i criminali messi sotto processo provengono da una sola fazione, e nessuno da quella opposta, sarebbe questa una ragione per assolvere tutti?
Dopo un quarto di secolo di espansione, l’emergente giustizia penale internazionale ha perso molti sostenitori. L’immagine romantica di un pretore coraggioso che mette nei guai un politico feroce è oggi stata rimpiazzata da quella di aridi dispositivi giuridici che sanciscono ex–post la fine della carriera di un despota, magari feroce nel passato, ma ormai diventato inoffensivo. In molti casi i Tribunali penali sono stati dei palliativi utilizzati dai governi quando non avevano voglia di imbarcarsi in più impegnative, costose e rischiose operazioni militari per ragioni umanitarie. Non sorprende dunque che la società civile globale abbia perso quell’entusiasmo con il quale aveva sostenuto dal 1990 in poi l’istituzione delle Corti.
Molti governi percepiscono la giustizia penale internazionale come una minaccia, una scheggia che potrebbe prima o poi impazzire e mettere in difficoltà il sotterraneo lavoro delle diplomazie. Finora le grandi potenze sono riuscite a indirizzare agevolmente le toghe e a bloccare i loro entusiasmi, ma chi può garantire che i magistrati non inizino ad indagare dove non dovrebbero? Stati Uniti, Russia, Cina, India e Israele sono tra i paesi che non vogliono aderire al principio che le responsabilità penali degli individui possano essere di competenza di istituzioni internazionali. E stiamo ora assistendo alla ribellione dell’Africa, scontenta del fatto che la Cpi si sia finora dedicata quasi esclusivamente ai crimini commessi nel continente nero.
Abolire la giustizia penale internazionale sarebbe il modo più semplice per far dormire ai governanti sonni tranquilli. Tutti colpevoli, e con un colpo di spugna tutti diventano innocenti. Le vittime passate, presenti e future dovrebbero ricercare equità con altri mezzi e, più probabilmente, accettando il proprio status di martiri senza risarcimento. La forza tornerebbe ad essere incontrastato strumento di legittimità. L’alternativa suggerita dai cosmopolitici è invece diversa: continuare faticosamente ad utilizzare gli strumenti del diritto per far emergere la verità, per identificare i responsabili dei delitti, per rendere ogni giorno la giustizia penale meno parziale e meno ossequiosa verso i potenti. Con la speranza che aumentare i dispositivi giuridici costringa sempre più il potere a diventare elemento di servizio e non di dominio dei cittadini.
Il clamore dei processi può far sorgere una nuova consapevolezza, tale che i reati siano ostacolati da due fattori extra–giuridici: la censura e la disapprovazione sociale. I processi potrebbero essere un necessario momento spettacolare in cui si espongono al mondo intero pochi crimini e i loro colpevoli. La giustizia penale internazionale è finora stata più utile come spettacolo che dà in pasto all’opinione pubblica globale argomenti di riflessione che non per le persone che è effettivamente riuscita a condannare.
L’evoluzione della giustizia penale internazionale sarà molto lenta e che qualsiasi conquista dovrà essere ottenuta contrastando il volere dei governi più potenti. Occorre, in altre parole, una necessaria emancipazione nella quale i cittadini del mondo, intenzionati a proteggersi a vicenda dagli abusi del potere, impongano i propri strumenti giuridici. Quando ci sarà una opinione pubblica disposta a denunciare i delitti e ad esercitare quella funzione imparziale che i governi hanno così spesso abbandonato, sarà possibile per le istituzioni ufficiali esercitare meglio il proprio mandato. Le Commissioni per la verità e la riconciliazione, i Tribunali d’opinione, la denuncia delle violazioni dei diritti umani esercitate da istituzioni coraggiose, da avvocati e giudici che strillano fuori dal coro sono gli unici strumenti che possono indurre le Corti istituite dai governi alla propria funzione originale. Le denunce di artisti, scrittori, registi e giornalisti si sono dimostrate utili quanto le indagini compiute da magistrati coraggiosi, a conferma che tutti possiamo decidere di indossare una toga. Senza costoro, la giustizia penale internazionale così faticosamente raggiunta rischierebbe di diventare un ulteriore strumento nelle mani del più forte. Tocca a queste avanguardie il compito di scrivere le pagine più importanti di un futuro diritto cosmopolitico.
Il testo pubblicato è un estratto del volume di D. Archibugi & A. Pease, Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali (Castelvecchi, 2017)