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Dazi e guerre vere: il caos sistemico di Trump

I dazi del 30% sulle importazioni da Europa e Messico sono l’ultimo colpo a sorpresa di Trump. La risposta europea dovrebbe colpire dove gli Usa sono più esposti – digitale, finanza, tecnologie verdi – e disegnare un ordine meno ingiusto.

Un ceffone al posto delle buone maniere. Il braccio di ferro al posto delle regole. Attaccare gli alleati più vicini anziché gli avversari. Colpire i punti più deboli degli interlocutori per paralizzarli ed evitare controffensive. Il 30% di dazi imposti sulle esportazioni di Unione Europea e Messico negli Stati Uniti che Donald Trump ha annunciato ieri è solo l’ultimo colpo di una strategia praticata fin dal suo insediamento. I rinvii e i pochi passi indietro sono stati soltanto l’occasione per prendere meglio la mira.  

Non c’è una spiegazione di questa politica che si possa trovare nei manuali di relazioni internazionali, o tantomeno in quelli di economia. La razionalità dell’azione degli Stati Uniti è nella creazione di un disordine internazionale – il “caos sistemico” descritto decenni fa dagli studiosi del sistema-mondo – in cui la scena è occupata da chi colpisce per primo e più forte. Poco importa se il vantaggio è di corto respiro, se si distrugge la Nato, il commercio internazionale o la capacità degli Usa di attrarre scienziati e ricercatori. L’egemonia americana è tramontata e le buone maniere non servono a riportarla in vita. 

Non a caso la strategia Usa mette in primo piano il ritorno della guerra. C’è l’attacco all’Iran, il sostegno allo sterminio realizzato da Israele, la continuazione del conflitto in Ucraina. Sul piano interno c’è il riarmo nucleare e convenzionale delineato dal nuovo bilancio federale. Nei confronti dell’Europa c’è l’ingiunzione a spendere il 5% del Pil per la difesa – in buona parte per acquistare armi dagli Stati Uniti, come i cacciabombardieri a capacità nucleare Usa F35. O a pagare con fondi europei i missili Patriot che gli Usa potranno fornire all’Ucraina.

Qualche vantaggio concreto gli Usa riescono così a ottenerlo: nel 2024 le vendite di armi all’estero sono state di 120 miliardi di dollari, con la guerra in Ucraina le vendite all’Europa sono aumentate del 233% (dati Sipri del 2020-2024 sul 2015-2019) e gli Usa controllano ora il 43% dell’export mondiale di armamenti. Sul fronte commerciale, a giugno i nuovi dazi hanno portato 100 miliardi di dollari al governo federale, il 5% di tutte le entrate fiscali, e il deficit commerciale Usa è sparito. Ma non sono queste le misure che potranno rimettere in piedi l’economia Usa.

Come reagire allora al ceffone di Trump? Il dibattito tra Bruxelles e Roma è ancora fermo alla questione se introdurre ritorsioni o auspicare un nuovo negoziato. Entrambe le risposte non capiscono la natura dello scontro con Washington. Il “bullo” della Casa Bianca va colpito non sul whisky ma sul software, non sui jeans Levi’s ma sulla finanza, non sulle Harley-Davidson ma sulle tecnologie verdi. Alcune  misure concrete sono già sui tavoli della diplomazia: tassare le esportazioni di servizi americani verso l’Europa, imporre alle piattaforme digitali Usa di pagare le tasse in Europa, affermare come standard internazionali le regole europee sulla protezione dei dati digitali, sull’intelligenza artificiale e sulla transizione verde. 

Il problema è che i leader europei hanno una cultura del tutto inadeguata al disordine di oggi. Ursula von der Leyen alla Commissione, Kaja Kallas alla politica estera UE, Roberta Metsola al Parlamento europeo, Mark Rutte alla Nato hanno praticato per decenni il neoliberismo più austero per poi diventare falchi nella guerra (non solo fredda) contro la Russia. Su entrambi i fronti le loro posizioni vengono da un’obbedienza totale al potere degli Stati Uniti. Inevitabile che oggi il loro istinto sia ancora quello di giustificare e mediare con Washington, anche quando le decisioni della Casa Bianca arrivano come ceffoni in pieno viso. Per i leader dei governi dei maggiori paesi UE il discorso è analogo, ma con sfumature differenziate visti i complessi equilibri elettorali a scala nazionale e l’ondata di destra sul continente. 

L’unica eccezione è il socialista Pedro Sanchez che a Madrid ha rifiutato il diktat americano sulla spesa militare, ha bloccato le vendite di armi a Israele – “il nostro governo non commercia con uno Stato genocida”, ha detto in Parlamento – ed è andato in visita di Stato in Cina e Vietnam nell’aprile scorso. Iniziative di buon senso, che faticano però a essere condivise dai socialdemocratici e dalle forze di centro-sinistra europee – per non parlare dei Verdi. Eppure potrebbe essere questo il punto di partenza per ridare un senso alla politica europea.

Un’Europa degna della sua storia potrebbe cogliere l’occasione del disordine di Trump per riscrivere alcune regole internazionali su misura dei propri interessi e dei propri valori: chiudere i paradisi fiscali in Irlanda, Lussemburgo e Olanda per le multinazionali Usa, limitare i movimenti di capitali verso gli Stati Uniti, introdurre vincoli all’attività delle società finanziarie Usa che con i fondi di private equity spadroneggiano nelle economie del continente. Le crepe nella finanza americana sono già iniziate a vedersi con l’inquietudine della Borsa e con la fuga dal dollaro: dall’inizio dell’anno il dollaro si è indebolito del 10% rispetto all’insieme delle monete principali; come osserva il New York Times una scivolata analoga non avveniva dal 1973, quando il dollaro abbandonò la parità con l’oro e il sistema monetario mondiale venne riscritto daccapo. La finanza e il dollaro – accanto alle armi – restano il cuore del potere americano ed è quello con cui l’Europa – e tutto il mondo – dovranno ora fare i conti. 

Qui, naturalmente, serve la politica: perché non convocare un vertice UE-Cina-Brics a Bruxelles (o a Roma) per trovare nuovi sbocchi commerciali per tutti e rimettere insieme qualche traccia di ordine internazionale che serva non al bullo della Casa Bianca, ma a tutto il mondo?

Una versione più breve di quest’articolo è stata pubblicata sul Manifesto del 13 luglio 2025