Troppi profitti dalla finanza, troppo pochi dagli investimenti che servono all’economia e alla società. Mancano i consumi, la politica è assente, la crisi si aggrava. Dopo gli errori dell’Europa neoliberista, siamo all’autodistruzione del capitalismo?
Le questioni messe in luce da Rossana Rossanda e altri interventi al dibattito sulla crisi sono di grande importanza. Vorrei partire dalla questione su quale tipo di Unione dovesse venire prima in Europa: quella economica o quella politica? Non si tratta di un problema di priorità temporale ma di che tipo di Unione vogliamo, all’insegna di quali contesti ideologici. L’Unione Europea – che è soprattutto di tipo economico come nota Rossanda – è stata realizzata all’insegna del neo-liberismo e dell’ortodossia economica neoclassica: i mercati sono efficienti, sanno regolare l’economia ed è loro – non dello Stato – il compito di farlo . Questa ideologia è antitetica ai principi di coesione sociale non solo tra le nazioni, ma anche all’interno dei singoli Paesi. Avremmo potuto costruire un’ Unione Europea in un contesto ideologico, economico e politico diverso; in questo caso la questione di cosa sarebbe dovuto venire prima – unione economica o politica – non si sarebbe posta. Un contesto ideologico più a sinistra avrebbe richiesto più attenzione a questioni di coesione sociale sia all’interno dei paesi che tra i paesi dell’Europa. Quindi è più probabile che – in tale scenario – l’Unione sarebbe avvenuta contemporaneamente in campo economico e politico. Ma questa è una riflessione controfattuale, del tutto ipotetica.
Restiamo con un’immagine controfattuale: se una Marziana visitasse la terra nel secolo XXI, cosa mai potrebbe pensare del nostro sistema economico e sociale in cui: (a) una quantità enorme di risorse – umane e di capitale – sono assorbite da prodotti finanziari astrusi, incomprensibili persino agli addetti ai lavori e, a prima vista, totalmente inutili; (b) la gente che lavora e investe in questi strani prodotti ha remunerazioni molto più alte del resto della popolazione; (c) la maggior parte dei terrestri sembra aver bisogno di cose basilari dal cibo, alle strade, alle case, all’istruzione, ai trasporti e ai servizi medici. Perchè le risorse dedicate alla cosiddetta finanza non sono riallocate verso prodotti utili alla società?
Nell’Italia di 50 anni fa era impossibile immaginare che tante risorse sarebbero state dedicate ad attività finanziarie. Perchè la differenza con oggi? Nell’Italia e nell’Europa del dopoguerra c’erano enormi opportunità di investimento nell’economia reale sia per la ricostruzione che per beni di consumo: opportunità di investimento per il settore privato e a tassi di profitto alti o abbastanza alti da indurre gli imprenditori a investire quanto più potevano. Negli ultimi decenni le opportunità di investimento ad alti rendimenti sono diminuite e il capitale ha cercato sbocchi nel settore finanziario creando nuovi prodotti e cercando rendite ben più alte dei tassi di profitto del settore reale. Non è che questi ultimi siano nulli, è solo che sono più bassi delle rendite finanziarie.
Perchè le opportunità di investimento ad alto rendimento nel settore reale sono diminuite? Le ragioni sono molte e vanno da problemi di saturazione della domanda con il crescere dei redditi pro capite, alla redistribuzione dei redditi a favore dei più ricchi, che hanno una propensione al consumo inferiore a poveri e classi medie, ai problemi legati alle nuove tecnologie. Negli ultimi decenni abbiamo visto un forte sviluppo delle capacità produttive grazie alle nuove tecnologie dell’informazione e comunicazione, ma esse non hanno sviluppato la possibilità di nuovi prodotti allo stesso ritmo, aggravando così il problema della coerenza tra domanda e capacità produttiva. Le vendite di prodotti digitali sono ben poco rispetto alle vendite di automobili ed elettrodomestici degli anni dopoguerra.
Quando parlo di basse opportunità di investimento nel settore reale non intendo dire che non c’è bisogno di investimenti sia in paesi sviluppati che non. Tale bisogno sarebbe ovvio persino alla nostra Marziana: dalle infrastrutture alle case a fonti alternative di energie a servizi pubblici di istruzione, trasporti e di sanità. Ma molti di tali investimenti non danno un adeguato rendimento per il settore privato: sono investimenti che danno rendimenti economici e sociali a lungo termine e che possono essere intrapresi solo con il finanziamento pubblico.
Se c’è del vero in questa prospettiva di sottoconsumo circa le origini della crisi del capitalismo, ne derivano varie riflessioni. La prima è che la situazione è forse più seria di quanto sembra in superfice: non basta riformare sostanzialmente il sistema finanziario – cosa essenziale per iniziare a uscire dalla crisi – bisogna pensare a sbocchi per gli investimenti. È qui tocchiamo il problema dell’intervento dello Stato che, in questa prospettiva, diventa essenziale per la sopravvivenza del capitalismo stesso. L’altra riflessione riguarda l’equilibrio tra le forze sociali e politiche e la necessità di spostare gradualmente la distribuzione del reddito e della ricchezza a favore delle classi meno abbienti, con propensioni al consumo più alte e capaci di accrescere di più la domanda aggregata. Cambiamenti sostanziali al sistema finanziario porterebbero a un arresto nella redistribuzione a favore dei ricchi che abbiamo visto negli ultimi 30 anni. Ancora una volta, cambiamenti economici e politici risultano strettamente connessi.
Come si può arrivare a ciò? Come si può arrestare l’autodistruzione del capitalismo che stiamo vedendo? In molti siamo convinti che l’attuale strategia di rappezzamento dei nostri governanti a livello mondiale non solo non ci farà uscire dalla crisi, ma la aggrava. Ciò accade perchè gli speculatori hanno l’aspettativa che se puntano su un paese – e ripetutamente, come per la Grecia – possono contare su un salvataggio, e così approfittare delle differenze di prezzo delle obbligazioni tra i periodi di tassi alti e meno alti: in altre parole, l’incertezza creata da loro – e dalle agenzie di rating – gioca a loro favore. Intanto, purtroppo, i contribuenti e i cittadini meno abbienti ne pagano le conseguenze.
Ne usciremo? Non certo con le politiche attuali. Purtroppo temo che ci vorranno grandi sconvolgimenti sociali – forse ben più grandi di quelli che sto vedendo a Londra mentre scrivo – prima che la rotta cambi.