Recessione e debito, il paese in ginocchio. Nessun intervento per l’economia in crisi, rischio default. Analogie e differenze con il caso italiano
L’allarme del possibile default della Grecia suona da più parti e mette in crisi l’integrità dell’Unione monetaria europea. Entro gennaio il governo greco dovrà sottoporre alla Commissione Europea un piano fiscale triennale e probabilmente entro febbraio si vedrà ricevere un ultimatum che gli concederà appena quattro mesi di tempo per risanare i conti, prima di incorrere in sanzioni. In tutto ciò, la partita ha due giocatori: Atene – che ha tutto l’interesse nel non essere estromessa dall’euro ma che teme le scelte impopolari che dovrà compiere per restarci – e Francoforte – determinata nel preservare l’integrità dell’Unione ma senza intaccarne la credibilità – . O forse tre. Le valutazioni delle agenzie di rating americane – quelle che nel 2008, alla vigilia del tracollo finanziario, assegnavano ottimi voti a Lehman Brothers & co. – pesano tuttora nel dibattito internazionale, incredibilmente.
Lo scorso decennio, la Grecia ha senza dubbio raggiunto ritmi di crescita del Pil sorprendenti (il 4,2% medio annuo contro l’1,9% europeo) ottenendo anche una forte riduzione del tasso di disoccupazione (il 7,7% nel 2008 contro il 7% europeo). Un fatto certo è che però tali risultati sono avvenuti a spese di una costante ascesa del deficit pubblico e dell’indebitamento del Paese. Il principale motore dell’exploit greco è stata una forte domanda interna sostenuta principalmente da politiche fiscali espansive ed espansione del credito alle famiglie e alle imprese.
Al costante aumento del deficit pubblico e dell’indebitamento del settore privato lo stato ha fatto fronte attingendo ai finanziamenti esteri, tanto che tra il 2000 e il 2007 la quota annuale media di prestiti stranieri è giunta a quota 10% del Pil. Il ricorso al canale estero si è reso necessario anche a causa della debole base produttiva greca e della scarsa competitività delle merci prodotte: ne è scaturito un cronico disavanzo della bilancia commerciale, a sua volta compensato dall’ingresso di nuovi flussi finanziari stranieri. Il risultato è stato un progressivo peggioramento della parte corrente della bilancia dei pagamenti (il cui deficit nel 2007 ammontava al 14,2% del Pil) e una sostanziale dipendenza dall’estero della Grecia in termini sia produttivi sia finanziari.
Per certi aspetti, l’appartenenza all’area dell’euro non ha granché giovato alla Grecia: la mancanza del deprezzamento del tasso di cambio quale strumento equilibratore della bilancia con l’estero o la riduzione nel rating del rischio paese associato, sono fattori che hanno influito sul ribasso generale dei tassi d’interesse sia nominali sia (dato l’alto tasso d’inflazione (3,4%) reali. Da qui, lo scoraggiamento dei risparmi, l’incentivo al ricorso al credito e l’accresciuto indebitamento del Paese, anziché essere compensati dal rigore fiscale, hanno proseguito nella spirale al rialzo a causa del tenore espansivo nelle decisioni di spesa pubblica. Nel 2008, il rapporto debito/Pil ammontava al 99,2%, un valore più alto del 38,1% rispetto alla media europea, secondo solo a quello italiano.
Tra gli effetti della crisi finanziaria subiti in Grecia, al generale rialzo dei premi di rischio – gli spread sui Credit Default Swaps greci (cioè i premi pagati per assicurarsi contro il rischio di insolvenza dello Stato a fronte dell’acquisto dei suoi titoli di debito) sono aumentati fino a 211 punti base rispetto agli 81 punti italiani – è seguito l’aumento nei tassi di interesse sul debito pubblico, che ha ulteriormente fatto aumentare il rischio d’insolvenza del Paese. Basti pensare che a marzo 2009 il differenziale tra i tassi greci e quelli sul debito tedesco ha raggiunto il 2,87% rispetto ad una media dello 0,26% tra il 2000 e il 2007. L’emergere di tali differenziali ha certo ripristinato il ruolo equilibratore dei meccanismi legati ai movimenti dei tassi d’interesse, ma in compenso è cresciuta la propensione al risparmio privato così come l’onere del debito pubblico.
Nel 2008 la Grecia è incorsa nell’Edp (Excessive Deficit Procedure, la procedura d’infrazione per disavanzo eccessivo rispetto al vincolo del 3% sul Pil) della Commissione Europea, essendo il rapporto deficit/Pil salito al 5%. Per questo, al governo greco non è stato consentito di adottare pacchetti di misure fiscali anticrisi al pari degli altri stati membri dell’Unione. A tal proposito, l’analisi proposta da Ersi Athanassiou (1) conclude che questa mancata possibilità abbia costituito un’opportunità per la Grecia, impedendone l’ulteriore deterioramento dei conti pubblici. Dato il già alto livello di deficit pubblico, l’onere della manovra sarebbe stato finanziato tramite emissione di altro debito pubblico il quale sarebbe stato acquisito per lo più da operatori stranieri. In questo modo, non solo il grado d’indebitamento estero sarebbe cresciuto, ma l’obbligo di servire il maggiore debito avrebbe richiesto o una più alta pressione fiscale o una riduzione di spesa pubblica: entrambe le soluzioni aventi un effetto negativo sulla domanda. Gli alti tassi d’interesse sul debito avrebbero poi amplificato l’effetto neutralizzante che la minor domanda avrebbe avuto rispetto alla manovra fiscale iniziale. L’analisi dell’economista greco esclude dunque la minima possibilità, per la Grecia, di usare il bilancio pubblico in chiave anticiclica.
Dall’Europa suona inoltre un altro campanello d’allarme: dal 2010 i requisiti di rating connessi agli Abs (Asset Backed Securities, titoli con garanzia collaterale emessi a fronte di operazioni di cartolarizzazione di attività non finanziarie, come i mutui ad esempio) saranno più stringenti quando essi debbano essere accettati come collaterali in contropartita di finanziamenti della Bce. Verosimilmente, la medesima stretta di rigore sarà applicata anche ai titoli del debito pubblico. A quel punto la Grecia subirebbe un grosso colpo in termini di declassamento del debito e la domanda di titoli pubblici si ridurrebbe ancora.
In questo contesto, è inverosimile che la Bce abbandonerà la Grecia al destino del default finanziario. Una frattura dell’Unione monetaria non gioverebbe a nessuno. D’altra parte, chiedere il sostegno finanziario degli altri membri dell’euro o del Fmi (Fondo monetario internazionale) per salvare la Grecia darebbe un pessimo segnale ai mercati. Certo è che le richieste di Francoforte costringeranno Atene a tagli di spesa e licenziamenti. Come a dire: il costo dell’irresponsabilità pubblica e della crisi finanziaria, saranno ancora una volta i cittadini a pagarlo.
Quanto ha da imparare l’Italia da questa lezione? Gli effetti contingenti della crisi, lo storico fardello del debito pubblico e l’esiguità del cosiddetto “pacchetto anticrisi” italiano rende la condizione del nostro paese pericolosamente assimilabile a quella greca. Doveroso tenere conto però delle peculiarità del nostro caso. Se la Grecia esce da un trentennio di sostanziale indisciplina fiscale, il graduale rientro dei conti pubblici aveva portato l’Italia, alla vigilia della crisi finanziaria, a far scendere il rapporto deficit/Pil sotto il tetto del 3% per la prima volta dal 2002. Il sistema bancario italiano, per costituzione poco esposto ai rischi finanziari, ha dunque evitato al nostro paese, a differenza della Grecia, la pressione dei mercati finanziari seguita alla crisi. Relativamente alla Grecia, l’Italia gode sia di una maggiore propensione al risparmio (15,54% medio nel periodo 1999-2008 contro l’11,73% medio europeo) sia di un minore indebitamento privato (il rapporto debito/reddito disponibile medio nel periodo 1999-2008 è pari al 36,6% contro l’82,5% europeo – fonte dati: Eurostat). Quanto alla questione dello squilibrio debito/Pil, la fonte nei due paesi è diversa: gran parte di quello greco è dovuto all’accumulo di deficit primari, mentre il debito italiano è tornato a crescere a seguito della recessione dovuta alla crisi. Tuttavia, sebbene il governo italiano, a differenza di quello greco, sia intervenuto a tamponare gli effetti della crisi tramite apposite misure fiscali, queste sono apparse obiettivamente insufficienti (0,5% del Pil, lo stanziamento più basso di tutti i paesi europei, Grecia esclusa) e i dati dell’ultimo trimestre del 2009 sul Pil (-4,6% rispetto allo stesso periodo del 2008) e sul disavanzo (5% del Pil) non promettono affatto bene.
Il rischio è che la mancata ripresa della crescita renda sempre più onerosi – per la finanza pubblica, ma non solo – gli effetti presenti della crisi e quelli che si manifesteranno in futuro. Tornare a crescere in termini di reddito e di produttività, combattere l’evasione, sostenere gli investimenti e i consumi, oltre a rappresentare obiettivi in sé, costituiscono per l’Italia tappe intermedie cruciali sulla strada del risanamento dei conti. A tal proposito, non ci pare che le ricette di rigore proposte dal governo possano bastare all’Italia per recuperare terreno. Mai più d’ora, politiche di bilancio e di spesa dovrebbero recuperare spazio a dispetto di un interventismo, se pur molto propagandato, ampiamente di facciata. Ora che l’economia è in affanno, l’eccessiva prudenza data dalla paura per l’allargamento del debito potrebbe un domani, paradossalmente, rivelarsi rischiosa e controproducente. Ci pare che soltanto un approccio alle politiche di spesa più consistente e mirato di quanto sia stato fatto finora, potrà verosimilmente allontanare dall’Italia lo spettro della crisi.
(1) E. Athanassiou (2009). “Fiscal Policy and the recession: The Case of Greece”. Intereconomics, Nov-Dec 2009. Athanassiou è Research fellow presso il Centre for Planning and Economic Research (KEPE).
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