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Covid, migranti e la strategia dell’emergenza permanente

L’emergenza Covid non solo non ha modificato le politiche e le misure sull’immigrazione, ma ha portato a un’ulteriore intensificazione della strategia dell’emergenza permanente che da sempre le caratterizza, con il risultato di portare a nuove discriminazioni dei migranti e di inasprire le disuguaglianze.

C’è un prima e c’è un dopo.

Le analisi degli effetti della pandemia da Covid-19 tendono a identificare nella diffusione di questo nuovo virus così letale uno spartiacque tra un “prima” e un “dopo” della storia umana. Il virus ha avuto sicuramente un impatto immediato anche sui milioni di persone che nel mondo si muovono per motivi economici, politici o climatici. Si tratta di persone che le norme internazionali tendono a distinguere nettamente le une dalle altre in migranti, profughi, richiedenti asilo e rifugiati, nonostante le storie migratorie rendano sempre più aleatoria la gerarchia di bisogni e di diritti collegata ai differenti status giuridici definiti dalle leggi dei Paesi “ricchi” di destinazione.

Chi parte per fuggire la fame o perché cerca condizioni di vita migliori, non gode delle stesse tutele di chi scappa da una persecuzione politica o da una guerra. Ma in quale punto di questa gerarchia debba porsi una donna nigeriana che fugge dalla Libia, dopo avervi vissuto per anni ed essere stata violentata in un centro di detenzione libico, è cosa molto meno scontata di quanto le leggi possano indurre a pensare.

La chiusura delle frontiere in tutti i continenti, a seguito della diffusione della pandemia, ha limitato (e continua a limitare) fortemente la circolazione delle persone. E tendono a rallentare anche le rotte migratorie e gli spostamenti delle persone straniere già emigrate in altri paesi, dunque titolari di un regolare documento di soggiorno. C’è però da chiedersi se rispetto alle migrazioni e alle politiche migratorie davvero la pandemia rappresenti una cesura oppure solo un ulteriore avanzamento di una strategia dell’emergenza permanente che è stata seguita pressoché interrottamente in Italia e in Europa, almeno a partire dalla firma dell’accordo di Shengen, ed è in realtà applicata in quasi tutte le regioni del mondo che sono meta di immigrazione.

La straordinarietà della fase che stiamo attraversando è indubbia. E tuttavia, le modalità con le quali ha condizionato la mobilità umana, la vita delle persone immigrate e le politiche migratorie, più che essere improntate dal segno dell’eccezionalità, tracciano una linea di continuità con un lungo ciclo storico in cui l’immaginario, le retoriche e le politiche istituzionali hanno privilegiato la chiave dell’emergenza per interpretare, rappresentare e governare un fenomeno sociale che è invece strutturale. Al momento, per quanto riguarda sia l’Italia che l’Europa, nulla fa ipotizzare un dopo pandemia caratterizzato da un cambiamento radicale del modello culturale, politico e istituzionale di analisi e di governo delle migrazioni.

L’era Covid-19

Dal punto di vista della circolazione delle persone, non è necessario ricorrere ai dati ufficiali per registrare una diminuzione degli arrivi di migranti in Europa nei mesi di febbraio, marzo e aprile 2020 rispetto agli anni precedenti. Eppure, dovremmo ricordare che l’Europa ha chiuso (di nuovo) ermeticamente le sue porte ben prima dell’era Covid-19. Anche solo considerando gli ultimi cinque anni, se si fa eccezione per il 2015, l’anno della cosiddetta crisi umanitaria collegata alla Rotta dei Balcani, in cui sono giunte in Europa più di un milione di persone, la chiusura delle frontiere europee è stata netta e crescente. Già nel 2016 i migranti arrivati sono stati 373.652, si sono dimezzati nel 2017, raggiungendo appena 141mila nel 2018 e 123mila persone nel 2019. Al 30 giugno 2020 i nuovi arrivi via mare e via terra risultano in tutto 27.965 (fonte: Unhcr qui).

Guardando all’Italia, grazie alle iniziative intraprese dai Governi Gentiloni e Conte 1, gli arrivi dei migranti giunti via mare sono talmente diminuiti a partire dalla seconda metà del 2017 che l’era Covid-19 ha registrato addirittura un aumento rispetto allo stesso periodo dei due anni precedenti: al 30 giugno 2020 risultano giunte via mare in Italia 6.812 persone.

E tuttavia, nonostante il Governo attuale sia più “responsabile” del precedente sul piano delle retoriche, gran parte delle persone soccorse in mare prima di riuscire a ottenere l’assicurazione di una destinazione sicura (un porto sicuro oppure la nave quarantena Moby Zazà, appositamente allestita nella fase di emergenza sanitaria) hanno dovuto attendere giorni. Sta succedendo ancora in queste ore ai 180 migranti messi in salvo dalla Ocean Viking di Sos Mediterranée, al centro dell’ennesima gara di declinazione di responsabilità tra il governo maltese e quello italiano. Il 7 aprile 2020, con il Decreto Interministeriale n. 150, il Governo ha peraltro disposto la chiusura dei porti italiani alle navi battenti bandiera straniera che abbiano soccorso persone in mare al di fuori delle acque Sar.

La continuità della strategia emergenziale applicata al governo delle migrazioni compare con particolare evidenza con riferimento alle persone già presenti sul territorio europeo. Ad eccezione del governo portoghese, che ha deciso a fine marzo di rilasciare un permesso di soggiorno temporaneo a coloro che ne avevano fatto richiesta per consentirne il libero accesso ai servizi pubblici – compresi quelli sanitari –, e del governo spagnolo che ha chiuso, su pressione della società civile, i centri di detenzione, i governi europei non sembrano aver cambiato di molto il loro approccio.

In Italia, ad esempio, i Centri di detenzione hanno continuato a funzionare nonostante la chiusura delle frontiere rendesse impossibile dare effettività ai decreti di espulsione.[1] Gli uffici immigrazione delle Questure e dei Comuni, come molti altri uffici pubblici, sono stati chiusi. Ma a differenza di altri paesi europei, l’Italia non è stata in grado di garantire a tutti almeno i servizi urgenti per via telematica. Ad esempio, a Roma diverse associazioni hanno segnalato di non avere ottenuto risposta all’invio di domande di richiesta di protezione internazionale.

Così come è successo per il complesso delle politiche sociali, ultima ruota del carro anche in questa fase così difficile proprio sul piano sociale e sanitario, sono mancate soprattutto nella primissima fase di lockdown linee guida e protocolli di intesa rivolti agli enti gestori dei progetti di accoglienza gestiti dalle Prefetture (CAS) e dai Comuni (Ex-Siproimi) nonostante che sin dai primi giorni successivi al 9 marzo, le organizzazioni antirazziste e umanitarie avessero evidenziato la necessità di predisporre protocolli specifici di gestione dell’emergenza.[2]

Se tutto sommato i casi di contagio interni al sistema di accoglienza e tra i senza fissa dimora sono stati molto limitati, lo si deve per lo più ai soggetti della società civile che si sono fatti carico della gestione dell’emergenza sanitaria con personale e risorse propri e grazie alle catene della solidarietà che sono nate, in molti casi in modo informale, in tutto il paese.[3] L’acquisto dei dispositivi di sicurezza (mascherine, guanti, eccetera) è stato messo a loro carico, così come la cura di materiali informativi in più lingue; l’approntamento di strutture dedicate, da utilizzare per ospitare le persone messe in quarantena, è giunto solo dopo che si sono presentati i primi casi di contagio. Anche i Comuni hanno stentato ad attrezzarsi per mettere in sicurezza le persone più vulnerabili: il problema che si è posto subito è quello delle migliaia di persone senza fissa dimora presenti nelle nostre città. Anche in questo caso, l’informazione e la messa in sicurezza delle persone, così come l’erogazione di alcuni servizi essenziali (la mensa, gli ostelli, la distribuzione di presidi sanitari) è stata delegata alle organizzazioni di volontariato, solo in un secondo momento coordinate con la protezione civile[4].

Ancora. Le persone straniere, prive di documenti, colpite dal virus hanno avuto difficoltà ad accedere alle cure. La legge riconosce loro, infatti, il diritto alle cure urgenti, ma non quello a iscriversi al Servizio Sanitario Nazionale. Prive del medico di famiglia (cui le norme di sicurezza sanitaria indicavano di rivolgersi in caso di sintomi sospetti), molte di loro si sono rivolte ai medici solo in caso di sintomi gravi.[5] La disparità di trattamento ha caratterizzato persino i bandi pubblicati da alcune amministrazioni regionali per reclutare personale medico e infermieristico e l’erogazione dei contributi straordinari predisposti a supporto delle famiglie messe in difficoltà dallo stato di emergenza sanitaria.

Analoghe forme di discriminazione sono state introdotte, da parte di molti Comuni, in occasione della pubblicazione dei bandi per accedere ai cosiddetti “buoni spesa” (voucher utili per l’acquisto di beni essenziali tra cui quelli alimentari)[6]. I Comuni hanno infatti potuto definire autonomamente i criteri di accesso al beneficio; in alcuni casi, hanno escluso tutti i cittadini stranieri, in altri gli stranieri senza titolo di soggiorno, in altri, ancora, hanno richiesto il possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo oppure la residenza anagrafica, escludendo in quest’ultimo caso anche i cittadini italiani senza fissa dimora. Un monitoraggio dei soci Asgi su tutto il territorio nazionale ha permesso di identificare decine di bandi discriminatori.[7]

Anche l’apertura della piattaforma dedicata alla Carta famiglia,[8] un’altra misura di supporto per le famiglie in difficoltà, ha mantenuto requisiti di accesso discriminatori (possesso della cittadinanza italiana o di un paese comunitario), escludendo tutte le famiglie straniere non comunitarie.

L’art. 103 del Decreto Rilancio, pubblicato il 19 maggio 2020, ha infine varato il lungamente discusso provvedimento di regolarizzazione dei lavoratori stranieri che operano in agricoltura, nel settore del lavoro domestico e familiare. Un ennesimo provvedimento selettivo i cui limiti sono ben noti: anziché ispirarsi all’esigenza di garantire il diritto universale alla salute e alla sicurezza sanitaria per tutti, si è guardato soprattutto alle braccia considerate indispensabili per svolgere alcune attività economiche (agricoltura e pesca) e assistenziali (lavoro di cura). Il risultato è che sono appena 80mila le domande presentate al 4 luglio 2020.

Post-Covid 19: il dopo sarà davvero diverso dal prima?

Il modello che sembra ispirare le vaghe intenzioni di riforma delle cosiddette leggi Salvini resta pressoché lo stesso, sicuritario ed emergenziale: non cessa di guardare al cittadino straniero con diffidenza e sospetto, considerandolo innanzitutto come un ingombro, un problema che occorre tenere lontano a suon di accordi di cooperazione con partner impresentabili (come la Turchia) e instabili (come la Libia).

Eppure, le proposte elaborate dalle organizzazioni della società civile e dai movimenti sono molte, a partire dai manifesti elaborati da Asgi, anche tecnicamente inappuntabili, dal manifesto della campagna Io accolgo, sino alla proposta di legge presentata dalla campagna Ero straniero. Per non parlare della riforma della legge sulla cittadinanza già approvata alla Camera il 3 ottobre 2015, colpevolmente affossata nel 2017 al Senato, a un passo dall’obiettivo.

Come anche il documento in dieci punti “In salute, giusta, sostenibile. L’Italia che vogliamo” proposto da Sbilanciamoci! ricorda, sarebbe auspicabile avviare un lavoro di riforma che procedesse in parallelo, distinguendo le priorità urgenti da obiettivi di medio e lungo periodo.

Innanzitutto, nella discussione in aula del Decreto Rilancio è auspicabile che sia migliorato l’art. 103 in materia di emersione del lavoro per rendere possibile a tutti i cittadini stranieri (e non solo a braccianti, collaboratrici domestiche e familiari) di regolarizzare il proprio rapporto di lavoro e di acquisire un titolo di soggiorno. È inoltre urgente abrogare le leggi Salvini, che con la cancellazione della protezione umanitaria hanno contribuito, tra le altre cose, a ingrossare le fila delle persone senza documenti. Resta ancora una priorità nella fase post-Covid definire linee guida e protocolli uniformi sul territorio nazionale per ripristinare il corretto inserimento delle persone aventi diritto nel sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, garantire la sicurezza sanitaria e riavviare i servizi e gli interventi di inclusione sociale e lavorativa, in gran parte sospesi nel corso della pandemia.

Ma un’inversione reale della rotta sin qui seguita richiederebbe una riforma ben più ampia che dovrebbe intervenire in primo luogo sui seguenti fronti: l’abbandono del proibizionismo pressoché assoluto delle migrazioni cosiddette economiche; l’introduzione di un meccanismo di regolarizzazione permanente; lo sviluppo di un vero e proprio piano di interventi di inclusione e di cittadinanza, che tra le altre cose preveda finalmente la riforma della legge n. 91/92; la riforma del sistema di accoglienza binario ereditato dai governi precedenti con la creazione di un sistema unico, pubblico di accoglienza diffusa, gestito dai Comuni.

Sarebbe fondamentale che tutto ciò avvenisse nel contesto di un più incisivo intervento pubblico volto a ridurre le diseguaglianze economiche e sociali e ad alleviare la situazione di disagio delle fasce di popolazione più fragili, anche al fine di evitare che gli effetti dell’emergenza Covid-19 diano nuova linfa alle forme di nazionalismo e di populismo più retrive e nuova forza agli imprenditori politici della xenofobia e del razzismo.

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Note

[1] Come ha dichiarato il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, ancora il 28 maggio, “continua a essere dubbiosa la complessiva legittimità di una privazione della libertà finalizzata a un obiettivo che non può essere realizzato, quantomeno in tempi brevi”. Si veda: “Il Garante nazionale nei giorni dell’emergenza Covid-19”, 29 maggio 2020, disponibile qui.

[2] Si veda, ad esempio, il documento sottoscritto da più di 100 associazioni che è stato inviato il 22 marzo 2020 al Governo, disponibile qui.

[3] Non ci sono dati ufficiali dettagliati e aggiornati sull’impatto del virus sulla popolazione straniera. L’unico dato di livello ufficiale è stato diffuso il 22 aprile 2020 dall’Istituto Superiore di Sanità, che ha stimato un 5,1% di cittadini stranieri contagiati dal virus.

[4] Si veda ad esempio qui il documento inviato da una rete di associazioni romane alla Sindaca Raggi per sollecitare la predisposizione di un piano di interventi rivolti a mettere in sicurezza sanitaria i cittadini senza fissa dimora.

[5] Come ha osservato Giovanni Rezza dell’Iss: “Il rischio di essere notificato come caso, per gli stranieri, tende a essere più basso rispetto agli italiani, ma se vediamo invece il rischio di ospedalizzazione rispetto a un italiano vediamo che negli stranieri è 1,4 volte più elevato rispetto agli italiani. Anche rispetto all’accesso alla terapia intensiva il dato è più alto negli stranieri. Vuol dire che uno straniero che ha una malattia meno grave ha una più bassa possibilità di essere notificato. Invece c’è un maggior ricorso all’ospedalizzazione”. Cfr. Rezza: “Molte fake news su stranieri e Covid”, Adnkronos, 8 maggio 2020.

[6] Si veda l’Ordinanza del capo Dipartimento della protezione Civile n. 658 del 29 marzo 2020, disponibile qui. Per un approfondimento si veda qui.

[7] Si veda: Asgi, Newsletter del Servizio Supporto Giuridico contro le discriminazioni 3/2020, “La vicenda dei Buoni spesa”.

[8] Istituita nel 2015, la carta permette di accedere a sconti e riduzioni tariffarie su beni e servizi offerti dalle attività commerciali aderenti, sia nei negozi che online. In origine, era riservata alle famiglie italiane e straniere con almeno 3 figli conviventi e minori di 26 anni. Con la Legge di Bilancio 2019, l’accesso è stato limitato alle famiglie italiane e comunitarie. A seguito dell’emergenza Covid, è stata resa accessibile a tutte le famiglie italiane e comunitarie con un figlio, ma è stata mantenuta l’esclusione per le famiglie di cittadini non comunitari.