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Costituzione, così i partiti vogliono salvare se stessi

La soluzione alla crisi dei partiti starebbe nel rafforzamento dell’esecutivo sul legislativo. Un’analisi del documento finale della Commissione per le riforme costituzionali

La rinnovata fiducia al governo Letta può portare a percorrere rapidamente la strada del cambiamento costituzionale. È quindi urgente discutere le prospettive indicate dalla Commissione per le riforme costituzionali incaricata del lavoro preliminare dal governo. Il documento finale reso noto il 18 settembre (uso di seguito il testo provvisorio messo on line dal Ministero per le riforme Costituzionali in quella data) è stato, in un momento in cui sembrava che quel governo stesse per dissolversi, sommariamente riassunto sui principali quotidiani, ma solo in pochissimi casi discusso, altrettanto sommariamente, e positivamente commentato, come sul “Corriere della sera” e su “l’Unità”. Poiché quella commissione non è figlia di nessuno, anzi ha genitori illustri, e rappresenta bene tutto un mondo accademico, istituzionale, e politico, è bene cominciare a preoccuparsi di quello che lì è stato elaborato, indipendentemente dal fatto che poi effettivamente il Parlamento si muova su quelle linee (l’8 ottobre “la Repubblica” riporta un ancora diverso progetto di legge elettorale su cui starebbe discutendo il Parlamento). Il proposito di questa nota è semplicemente di fornire al lettore una traccia di lettura ragionata che faccia uscire il testo della relazione dal silenzio in cui essa è stata indebitamente lasciata.

Possiamo tralasciare alcune proposte della commissione che corrispondono a orientamenti pressoché unanimemente condivisi nel paese (superamento del bicameralismo paritario, superamento della sovrapposizione di competenze tra stato e autonomie territoriali introdotta dal Titolo V, e aggiungerei tra gli aspetti positivi l’introduzione di un reale diritto di iniziativa legislativa popolare, e del conseguente referendum propositivo). Queste proposte formano già un impegnativo programma di revisione costituzionale, anche per tutti gli altri interventi minori che esso in ogni caso richiederebbe; ma chiaramente non è questo il centro dell’operazione politica che il governo con la sua attuale maggioranza si propone. Il centro è invece costituito dalle proposte sulla revisione della forma di governo e la connessa legge elettorale. E qui c’è molto di inquietante, a cominciare dall’analisi dei fenomeni che soprattutto determinerebbero le difficoltà che incontra il nostro sistema politico istituzionale a “esprimere nel tempo lungo un indirizzo politico stabile e radicato nel consenso del corpo sociale”, ossia la crisi dei partiti politici. Soprattutto stupisce l’idea che la crisi dei partiti politici sia identificata come un’incapacità di svolgere alcune importanti funzioni di rilevanza costituzionale anziché come la corruzione da loro stessi compiuta di quelle funzioni, il loro avere indebitamente e spesso illegalmente occupato le istituzioni, il loro avere selezionato sì, ma in negativo, la classe dirigente.

La soluzione al problema di partiti che non sono capaci di “concorrere a determinare la politica nazionale” sta quindi per la commissione nel rafforzamento dell’esecutivo, nella maggiore garanzia della sua stabilità e capacità di controllare il processo legislativo, al limite nella sua superiorità sul potere legislativo: come se la minaccia che gli attuali partiti italiani pongono alla democrazia di questo paese fosse soprattutto “nella prevalenza sistematica delle ragioni di conflitto su quelle di unità”, e l’unicità di una leadership incarnata nell’esecutivo fosse il solo contrasto possibile. Nella conclusione delle proposte sulla forma di governo, e a complemento di queste, la Commissione elenca, a proposito delle disfunzioni della vita dei partiti, una serie di “riforme della politica”, tutte attuabili attraverso leggi ordinarie, da votarsi evidentemente dai partiti stessi, al fine di impedire ai partiti di comportarsi come ormai da decenni si comportano. Arriviamo qui a uno dei paradossi della riforma costituzionale indicato nel 1996 da Gustavo Zagrebelsky, quello del riformatore riformato, come se il sistema politico potesse sdoppiarsi, prendendo in quanto soggetto riformatore le distanze da se stesso come oggetto riformando. Per uscire da questa difficoltà la Commissione ha in serbo una soluzione estrema, che spiegherò nella conclusione.

Sulle soluzioni specifiche la Commissione ha manifestato due orientamenti diversi. La prima linea “confida che i partiti siano in grado di superare l’attuale crisi e di tornare a collegare la rappresentanza della società e il suo governo, in un quadro costituzionale da rinnovare ma che conservi i necessari elementi di flessibilità propri della forma di governo parlamentare. La seconda linea invece presuppone che i problemi possano risolversi innanzi tutto con la creazione di istituzioni a investitura popolare diretta e l’eliminazione dei troppi poteri di veto, anche come presupposto della rigenerazione del sistema dei partiti”. I sostenitori di questa seconda linea propongono pari pari il cosiddetto semipresidenzialismo gollista in vigore in Francia (vedi il precedente articolo www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Semipresidenzialismo-o-iperpresidenzialismo-18987). Invece i sostenitori della prima linea, quella del governo parlamentare, presentano alcuni auspici, piuttosto che definite proposte, come quello che il sistema elettorale “contemperi le istanze di rappresentatività con l’esigenza di facilitare convergenze ed evitare l’eccesso di frammentazione politica”. L’unica proposta di rilievo è l’introduzione del vincolo della sfiducia costruttiva, dal momento che sul problema cruciale quando si parli di maggiore chiarezza nei rapporti tra esecutivo e legislativo, ovvero la disciplina dello scioglimento della Camera, di nuovo ci si limita ad auspicare che essa venga definita “secondo linee di chiarezza e responsabilità”. Il vuoto di questa formulazione è invece prontamente riempito nella terza posizione, tra semipresidenzialisti e parlamentaristi, che è emersa nella Commissione come quella si cui sono confluiti sostenitori delle altre due linee, e che un componente (Marco Olivetti, “l’Unità”, 19 settembre) ha definito come un punto possibile di convergenza. “Si tratta di una forma di governo e di una legge elettorale che facciano emergere da una sola consultazione degli elettori la maggioranza parlamentare e l’indicazione del Presidente del Consiglio, in modo da incorporare la scelta del leader nella scelta della maggioranza”, o viceversa, come appare chiaramente da un altro passaggio.

È evidente che in questo caso una funzione attuale del Presidente della Repubblica sparisce: forse non preoccupante, se si pensa che questa funzione non esiste attualmente né in Inghilterra né in Germania, però singolare quando si pensi alla universale esaltazione del ruolo, più decisivo che semplicemente incisivo, avuto da Giorgio Napolitano negli ultimi tre anni di fronte alle incapacità dei partiti. Ma soprattutto emerge in questo ambito anche la proposta di “meccanismi di più intensa razionalizzazione prevedendo che il Primo Ministro possa chiedere e ottenere lo scioglimento della Camera e che la richiesta precluda la presentazione di una mozione di sfiducia costruttiva”. Il potere del premier di sciogliere la Camera esiste in Inghilterra, è il risultato della scomparsa di ogni funzione effettiva di un capo dello stato ereditario, ed esprime un momento di autonomia informale del governo dal parlamento, che può diventare potere sul parlamento, e che in questo senso è stata formulata apertamente, in alcune circostanze cruciali, dai governi di Margaret Thatcher, con l’argomento che il governo, proprio perché è parlamentare, farà l’uso migliore del mandato fiduciario che ha ricevuto senza doverne rendere ragione puntualmente alla Camera. Di fatto, in Inghilterra esso è normalmente la facoltà, del tutto arbitraria, del premier di scegliere per le elezioni il momento migliore per il proprio partito. Altrimenti, il potere dell’esecutivo sul legislativo esiste nel regime gollista della Quinta Repubblica, ma solo in ben specificate circostanze. È chiaro che in un regime parlamentare il parlamento può licenziare il governo, ma non viceversa. In uno stato in cui viga in maniera rigorosa la separazione dei poteri né l’esecutivo può sciogliere il legislativo né il legislativo può licenziare l’esecutivo. Così è, in modo assoluto, negli Stati Uniti, l’esempio massimo di presidenzialismo democratico; e così è, in modo più flessibile, in Germania. Dunque il punto è cruciale per capire quale è il bilanciamento dei poteri a cui si è pensato nella Commissione, e che carattere ha il possibile compromesso.

Fidarsi del fatto che la commistione dei poteri con prevalenza dell’esecutivo altrove, in presenza di situazioni congiunturali e strutturali del tutto diverse dalle nostre, non abbia portato a esiti disastrosi, e non porsi mai un problema generale del funzionamento del sistema è peggio che pericoloso; denota il fatto che tutto l’orientamento della commissione si presenta come un tentativo di ingegneria istituzionale volto a contenere determinati fenomeni negativi specifici della società italiana piuttosto che a formulare un progetto di sistema. A chi si affida ad approssimativi rimandi ai casi altrui sarebbe opportuno ricordare che il semipresidenzialismo, con la doppia responsabilità del Cancelliere, verso il parlamento e verso un capo dello stato eletto direttamente, era anche la scelta della costituzione di Weimar, causa non minore dell’instabilità di un sistema politico fatto di molti partiti rissosi. La mancanza di una vera prospettiva costituzionale si inferisce anche dal fatto che manca nella relazione qualsiasi accenno all’indispensabile adeguamento delle maggioranze richieste per le scelte e le nomine di carattere istituzionale demandate al parlamento: erano maggioranze pensate quando era scontato che la legge elettorale fosse proporzionale, ma sono seriamente improprie quando si ragiona invece su leggi elettorali in ogni caso maggioritarie o con premio di maggioranza.

Il cuore dell’intera proposta è la legge elettorale, che dovrebbe impedire frammentazione negli orientamenti degli elettori, instabilità (impropriamente definita anche come problema di lungo periodo, anziché di legislatura), contrapposizioni troppo nette. Sulla forma di governo bisogna aggiungere che ai sostenitori del semipresidenzialismo anche il modello gollista originario sembra concentrare troppo poco il potere nella mani del capo dello stato se le elezioni parlamentari e le presidenziali non sono allineate in modo che il presidente possa avere l’opportunità di trascinare con sé una propria maggioranza parlamentare, anziché trovarsi a coabitare con una maggioranza parlamentare difforme dai suoi orientamenti. Anche qui basterà ricordare a proposito di sistemi presidenzialisti liberaldemocratici che nella Costituzione americana è imposto un meccanismo di sfasatura tra le elezioni per il congresso e le presidenziali, in modo che solo casualmente il Presidente possa godere di una sua maggioranza parlamentare. Ne derivano inconvenienti? Certamente, ma vale l’osservazione di Machiavelli, affine a quella finemente posta in ex-ergo alla relazione, che non si può togliere un inconveniente senza che se ne formi un altro.