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Così l’Italia è di nuovo nella gabbia del Patto di Stabilità e Crescita

La riforma ha confermato l’austerità. Andiamo incontro a una procedura per disavanzo eccessivo e dunque a una correzione strutturale del deficit di almeno lo 0,5% annuo. Da il manifesto.

La recente riforma del Patto di stabilità e crescita, dopo la sua lunga sospensione, tra il 2020 e la fine del 2023, è stata definita, in extremis, a ridosso della scadenza. Ora il testo, passato il «trilogo», dovrà tradursi nella modifica dei Regolamenti. In estrema sintesi, si abbandona la cosiddetta regola del ventesimo (riduzione in venti anni della differenza tra il debito in rapporto al Pil effettivo e il target del 60%), inapplicabile per molti paesi, tra cui l’Italia, e l’obiettivo del saldo strutturale (eccessivamente aleatorio). Inoltre, per verificare l’attuazione del piano, la Commissione utilizzerà la spesa primaria depurata di alcune componenti (fondi europei e stabilizzatori automatici).

Restano in piedi i vincoli stupidi e, tra questi, in particolare quello del debito. Il target del 60% non ha senso. Era la media (Italia esclusa) nel 1997, quando venne approvato il primo Patto. Ma ora siamo vicini al 100% e sarebbe ben possibile assestarsi su questo nuovo livello. Si creerebbe spazio per investimenti (soprattutto tedeschi) e si favorirebbe il rientro dei paesi con alto debito. Meno stupido, per certi versi, era il vincolo sul disavanzo che avrebbe consentito, con un tasso di inflazione al 2% (target della Bce) e una crescita reale del 3% (la speranza della fine degli anni Novanta) di finanziare in disavanzo gli investimenti pubblici (la spesa buona, che oscilla proprio intorno a tre punti di prodotto), senza incrementare lo stock del debito.

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