Il crollo dei consumi nel 2012, certificato dal Rapporto annuale dell’Istat e anche dal report diffuso venerdì, fotografa una fase di transizione verso un modello sociale nel quale, senza strutturali interventi correttivi, la divaricazione tra i settori sociali favoriti e le famiglie e le persone in condizioni più disagiate è destinata ad allargarsi
Nel 2012 il nostro prodotto interno lordo è al di sotto di 7 punti percentuali al livello precedente alla crisi, e il 2013 non preannuncia miglioramenti. Nello stesso tempo i consumi delle famiglie residenti sono 5 punti al di sotto del livello del 2007. Il ridimensionamento delle condizioni di vita della famiglia “media” risulterebbe allora più significativo per la sua lunga durata (passata e per le previsioni future) che per l’intensità quantitativa. Un’impressione che contrasta con l’esperienza quotidiana che indica condizioni più drammatiche di quanto i dati aggregati, nella loro pur utile sinteticità, non sembra riescano a illustrare pienamente. A ben vedere, qualcosa di preoccupante si può tuttavia rilevare interpretando anche i dati aggregati; in effetti, se si considera che nel periodo 2007-2011 il prodotto è caduto di 5 punti mentre i consumi di un punto solo, allora la perdita del prodotto nel 2013 (2 punti) è stato accompagnato da una caduta molto più accentuata dei consumi (4 punti) e ciò starebbe a segnalare che (in media) le famiglie, dopo aver resistito nei primi anni di crisi a sostenere il proprio livello di consumo (riducendo il risparmio precedentemente accumulato o ricorrendo al credito), si sono convinte ormai che lo standard di vita passato non sia più sostenibile e pertanto stanno adeguandosi alle nuove più restrittive condizioni.
Ma sono le informazioni disaggregate che forniscono indizi più incisivi sulla modificazione strutturale che stanno subendo le famiglie. In effetti, la crisi sta modificando l’evoluzione qualitativa dei consumi come ci avverte l’ISTAT, dal cui Rapporto annuale 2013. La situazione del Paese e dall’innovativo Rapporto BES 2013. Il benessere equo e sostenibile in Italia sono tratti i dati qui utilizzati. Nell’ultimo anno (2012) sono aumentate (di 3-4 punti percentuali) le famiglie che hanno ridotto la quantità e/o la qualità dei loro acquisti sia alimentari che di abbigliamento e calzature. Sono spese che rientrano tra quei beni necessari che determinano la valutazione delle famiglie sulla loro situazione personale; se a questa riduzione si aggiunge quella della spesa per la salute, considerata un investimento per le future condizioni di vita, è indubbio che la ristrutturazione dei consumi in atto riflette non solo un peggioramento nelle condizioni correnti delle famiglie ma anche una maggiore apprensione nei confronti della loro situazione futura.
Sono indicazioni che dipingono un quadro preoccupante se confrontiamo la situazione delle famiglie agiate con quelle disagiate; per quest’ultime, due famiglie su tre ritengono che il proprio reddito sia inferiore al necessario. La difficoltà a mantenere i propri consumi ai livelli pre-crisi sono particolarmente pesanti per i nuclei familiari che vivono in affitto, il cui capofamiglia è operaio, impiegato a tempo parziale, pensionato o disoccupato; e anche per le famiglie di giovani, tra i quali l’indice di incidenza alla povertà è schizzato, nei primi mesi del 2013, oltre il 15%.
Quanto ampia sia l’area delle famiglie in condizioni precarie è efficacemente fornita dall’indice di deprivazione, elaborato dal nostro Istituto di statistica per individuare le famiglie che incontrano difficoltà o a sostenere una spesa impreviste di 800 euro; o hanno arretrati nei pagamenti (mutuo, affitto, bollette ecc.); o non si possono permettere nell’anno una settimana di ferie lontano da casa; o non possono garantirsi un pasto adeguato (proteico) almeno ogni due giorni o un riscaldamento adeguato; o non possono permettersi l’acquisto di una lavatrice, o di un televisore a colori, o di un telefono, o di un’automobile. La quota di famiglie che presentano tre o più sintomi di deprivazione sui nove indicati hanno rappresentato nel 2012 il 14,3 per cento del totale (11,2 l’anno precedente e 6,9 per cento nel 2010); le persone che vivono in queste famiglie deprivate sono un quarto del totale (erano il 16 per cento nel 2010. Si tratta di individui che vivono in famiglie monoparentali, o in famiglie in cui la persona di riferimento è giovane, ha conseguito un basso titolo di studio, lavora a tempo parziale o è disoccupata o in cerca di prima occupazione. Come si può vedere in quest’ultimo anno il processo di deprivazione è fortemente intensificato, interessando – cosa ancor più preoccupante – sempre più famiglie che dispongono di redditi mediamente elevati. Fatto paradossale è che al crescere delle situazioni di disagio si sta riducendo la percentuale di persone che ricevono aiuti da parenti, amici, istituzioni ecc., quasi che la più diffusa situazione di disagio economico indebolisca le stesse reti di solidarietà esistenti.
Le condizioni di deprivazione sono indubbiamente influenzate dalla posizione sul mercato del lavoro. Ma anche qui il dato aggregato non raffigura pienamente la situazione drammatica, se ci si limita a rilevare la contenuta riduzione nel 2012 dell’occupazione (69mila unità), dovuta peraltro all’espansione degli occupati a tempo parziale e al ricorso della Cassa integrazione guadagni. Si ha una diversa impressione quando si rileva che l’aumento del tasso di disoccupazione (all’11,5 nel marzo 2013) è dovuto a quello della disoccupazione giovanile e a quello di lunga durata. La situazione appare ancora più seria se si fa riferimento a quel tasso di mancata partecipazione al lavoro, sempre elaborato dall’Istat, che intende misurare l’offerta di lavoro insoddisfatta (la parte di popolazione inattiva, ma potenzialmente disponibile a lavorare anche se non è in ricerca attiva di lavoro ritenendo di non poterlo trovare). Se il nostro tasso di disoccupazione è in linea con quello medio europeo, non appena si consideri la mancata partecipazione le condizioni risultano molto peggiori dato che il relativo tasso schizza in alto di almeno 5 punti (cresciuto tra l’altro di 3 punti nel 2012) con valori massimi per le donne e per le regioni meridionali. Esso è inoltre accompagnato da almeno due aspetti negativi: per quanto riguarda le tipologie contrattuali diminuisce l’occupazione standard e aumenta la componente involontaria del part-time e il lavoro atipico (le donne e il meridione con le percentuali più elevate); per quanto riguarda le qualifiche professionali si registra una ricomposizione a sfavore delle professioni più qualificate e dei lavoratori delle classi di età centrali (“il gruppo dei dirigenti e imprenditori, alla fine dei quattro anni perde ben 449 mila unità (pari a -42,6 per cento), quasi 100 mila solo nell’ultimo anno, nella maggior parte dei casi piccoli imprenditori e dirigenti d’impresa”).
Anche da queste poche informazioni si ricava una rappresentazione delle condizioni delle famiglie molto diversa da quella, già critica, desumibile dai dati aggregati. La variabilità all’interno delle famiglie è molto elevata e si sta rapidamente ampliando polarizzandosi ai suoi estremi. Per valutare l’incidenza del processo in atto mi sembra sufficiente una sola tra le molte pregevoli osservazioni che offre il citato Rapporto dell’Istat sul Benessere equo e sostenibile. Nel riportare le valutazioni della nostra popolazione in merito alle sei dimensioni (situazione economica individuale, relazioni con amici e familiari, salute, tempo libero e lavoro) che si ritengono cruciali per il benessere individuale e collettivo, si osserva che “nel 2012 il 75 per cento degli occupati si dichiara molto o abbastanza soddisfatto del proprio lavoro, in lieve diminuzione rispetto al 76,9 per cento registrato nel 2011” che ribadisce quanto l’interesse per il contenuto del lavoro svolto sia una dimensione fondamentale per la soddisfazione lavorativa per il complesso degli occupati. Ma proprio per questo non si può non sottolineare che negli ultimi anni, e in particolare nel 2012, è cresciuta la fascia di popolazione in cui la mancanza o la precarietà del posto di lavoro ne accentua la vulnerabilità: “la soddisfazione per motivi economici (…) mostra una flessione tra il 2012 e il 2011 (…) di 5,7 punti percentuali. Nel 2012 ha dichiarato di essere soddisfatto per questo aspetto solo il 42,8 per cento della popolazione di 14 anni e più. Inoltre tra gli intervistati è aumentata la percentuale dei poco soddisfatti (dal 36,1 per cento al 38,9 per cento) e soprattutto quella dei per niente soddisfatti (dal 13,4 per cento al 16,8 per cento).” Non meraviglia che in una tale situazione il grado di sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche sia minimo: solo il 4-5% delle persone di 14 anni e più hanno fiducia nei confronti dei governi (nazionali e regionali) e del parlamento e ancor meno (l’1,5%) nei confronti dei partiti politici.
Sono tutti segnali convergenti che confermerebbero che la fase che attraversiamo non è una comune crisi congiunturale, ma è invece una fase di transizione verso un modello sociale nel quale, se non vi sono decisi e strutturali interventi correttivi, è destinata a diventare più ampia la divaricazione strutturale tra i settori sociali favoriti, anche se tendono sempre più ad assottigliarsi, e le famiglie e le persone in condizioni più disagiate. Il processo in atto, sotterraneo e sistematico, rischia nel senso comune di apparire inevitabile e che il deterioramento delle condizioni di vita e di welfare non possa essere arginato da alcuna iniziativa: la scelta si ridurrebbe all’alternativa tra rassegnazione passiva e ribellismo vociante.