Di fronte alla pandemia, il governo degli Stati Uniti sta dimostrando di non essere all’altezza della sfida. Per farvi fronte, è ora di dismettere il logoro armamentario ideologico e politico ereditato dal reaganismo quarant’anni e ripensare il modello sociale e di sviluppo statunitense. Da “Atlante Treccani USA2020”.
«Nella crisi che viviamo, lo Stato non è la soluzione ai problemi, lo Stato è il problema». Questa frase del discorso di investitura, assieme a quella pronunciata davanti al Muro di Berlino («Mr. Gorbachev, abbatta questo muro!») è forse la citazione più famosa del presidente che assieme a Margaret Thatcher ha fatto da balia all’epoca che ancora viviamo. Il discorso con il quale assumeva la presidenza il 20 gennaio 1981 è un manifesto dei tempi a venire, Reagan nominava l’inflazione e le tasse come un fardello del quale liberarsi e segnalava come l’indebitamento dello Stato federale fosse una catastrofe nazionale. Come noto, il presidente che ventilava la ritirata dello Stato è il terzo per aumento percentuale del deficit federale dopo Roosevelt e Wilson; dopo di lui, che nel discorso inaugurale spiegava «agli individui non è concesso indebitarsi senza ripagare», il debito degli individui e delle famiglie è stato uno strumento cui si è fatto ampio ricorso per mantenere degli standard alti di consumo (mentre il reddito dei ceti medi e bassi diminuiva).
A proposito di individui, l’età di Reagan tende anche a essere quella in cui comincia il lungo addio a una struttura sociale centrata sulla partecipazione collettiva. Nel suo Bowling Alone (2001), lo scienziato politico Robert Putnam segnala come quella americana sia divenuta una società centrata sugli individui dopo aver attraversato una lunga fase caratterizzata da associazionismo e aggregazione – non solo i sindacati e partiti, ma la lega del bowling di cui parla Putnam, o la Loggia del Giaguaro di cui è membro Howard Cunningham in Happy Days, oppure l’Ordine dei Bufali d’acqua, di cui sono membri i due padri di famiglia nei Flintstones. Con il Coronavirus la solitudine degli individui, l’impoverimento delle reti sociali, l’assenza di tutele nel lavoro e di un welfare state efficiente tornano a fare notizia. Ma, a dire il vero, alcuni temi sono divenuti centrali in maniera crescente nel dibattito politico americano a partire dalla crisi del 2008. Il successo di figure come Alexandria Ocasio-Cortez e Bernie Sanders, specie tra i giovani, si spiega anche molto così.
L’epidemia di Coronavirus, la terza crisi di sistema attraversata dal pianeta dall’inizio del millennio, è tornata a far crescere il deficit federale USA in proporzioni senza precedenti, dopo che i tagli alle tasse dell’amministrazione Trump lo avevano già fatto raddoppiare rispetto agli ultimi anni di Obama. Nel 2020 il deficit potrebbe superare il PIL per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale. Tra l’altro, si badi, l’anno non è nemmeno arrivato a metà ed è possibile che il Congresso approvi nuove misure per contenere la crisi economica. Ma a cosa dovrebbe servire questa enorme quantità di spesa pubblica? Nel 2008 miliardi di dollari vennero spesi per impedire che il Paese precipitasse in una depressione, con successo. Ma i benefici andarono soprattutto al settore privato e alle banche, il soggetto alla radice della crisi, che non vennero neppure costrette a ridimensionare i bonus per i propri manager o a cambiare in maniera sostanziale il modo di fare affari.
La risposta alla pandemia, tra l’altro, è l’ennesimo segnale di come il modello sia pieno di crepe e l’America immaginata da Reagan non è più in grado di rispondere alle esigenze di questo decennio. L’incapacità del settore privato di rispondere in maniera tempestiva alla domanda di mascherine e respiratori è un segnale che il governo deve attrezzarsi per alcune grandi sfide. Quelle del cambiamento climatico, innanzitutto, perché in un Paese dai fenomeni atmosferici estremi per tradizione, i cataclismi sono destinati ad aumentare. Oppure immaginare di riportare una gran parte della produzione manifatturiera in casa. Cosa più facile a dirsi che a farsi, ad esempio perché non avrebbe tempi brevi e perché la catena di negozi più frequentata d’America, Wal-Mart, può permettersi di fare dei prezzi accessibili a tutti perché acquista merci prodotte all’estero.
Il Coronavirus mette gli Stati Uniti di fronte a domande rinviate dopo il 2008. E le risposte, almeno tra coloro che ritengono che le cose non andassero per il verso giusto neppure prima dell’epidemia, sono diverse e invocano grandi cambiamenti. Una cesura con l’epoca cominciata il 20 gennaio 1981. Il New York Times ha lanciato un’iniziativa editoriale ambiziosa per raccogliere idee autorevoli con un lungo editoriale che tra le altre cose recitava: «Franklin Roosevelt si dimostrò lungimirante quando concluse che il modo migliore per rilanciare e sostenere il benessere non era semplicemente quello di pompare denaro nell’economia, ma di riscrivere le regole del mercato (…). La pandemia di Coronavirus ha messo a nudo ancora una volta la natura incompleta del progetto americano – la grande distanza tra le realtà e i valori enunciati nei suoi documenti fondativi (…). L’attuale crisi ha rivelato che gli Stati Uniti sono un posto nel quale i ricchi possono ritirarsi nella sicurezza delle loro seconde case, affidandosi per la consegna del cibo a lavoratori che non possono prendere permessi per malattia».