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Coronavirus, l’Italia rischia grosso

L’Italia si troverà molto presto con un quadro di finanza pubblica disastrato, causa emergenza Covid-19 e conseguenti recessione economica e aumento del debito. Ma il ricorso al Fondo Salva Stati rischia di farci finire dalla padella nella brace. Servono altre soluzioni: monetizzazione del debito o Eurobond.

C’è un grande assente, per adesso, nel dibattito pubblico nazionale sui doveri e le inadempienze dell’Europa di fronte a quella che si annuncia una crisi di proporzioni inaudite, se paragonata a quelle che abbiamo vissuto negli ultimi trent’anni: il prossimo quadro di finanza pubblica, sul quale peseranno da un lato il maggiore ricorso all’indebitamento, dall’altro la recessione economica.

Ci avvitiamo, come sempre, in una discussione estraniante, perdendo di vista gli aspetti essenziali, dirimenti, delle questioni che siamo chiamati ad affrontare. Nello specifico, tutto quello che darebbe un senso compiuto ai nostri ragionamenti su ciò che in questa situazione potrebbe risultare utile o dannoso per il nostro Paese.

Mettiamo in fila i fatti. L’emergenza sanitaria che sta sferzando i Paesi europei è uno di quegli “eventi inconsueti” in presenza dei quali il Fiscal Compact acconsente a “deviazioni temporanee” dall’obiettivo del pareggio di bilancio. Non è la “sospensione” del Patto di Stabilità, ma una fattispecie contemplata tra le regole dello stesso. L’Italia ne sta approfittando, come altri Paesi europei. Se sommiamo i primi 20 miliardi di spesa in deficit già stanziati e l’ammontare delle garanzie per la liquidità alle imprese ci collochiamo ai primi posti tra i Paesi del G20 per entità delle misure fiscali fin qui adottate. In Europa, appena dietro la Germania.

Nel frattempo, sono arrivate le stime dell’Fmi sia sulle prospettive della nostra economia che sui nostri conti pubblici. Numeri problematici. La caduta del Pil nell’anno in corso potrebbe essere del 9,1% (il dato più clamoroso al mondo), col rapporto debito/Pil che schizzerebbe al 155,5% (il deficit di bilancio passerebbe dall’1,9% del 2019 all’8,3%). Beninteso, tutti i Paesi europei, oltre agli Usa, alla Cina, al Giappone, faranno i conti con bilanci slabbrati. E i deficit di bilancio, come la storia insegna, accompagnano sempre le crisi economiche, perché lo Stato deve compensare la flessione o il crollo della domanda privata. Ma l’Italia, per varie ragioni (entità della recessione, entità del debito, limiti dell’attuale governance europea) potrebbe pagare un prezzo più elevato tra i Paesi più industrializzati.

Immaginiamo lo scenario più cupo, ma non per questo meno plausibile. Passata l’emergenza, il deterioramento del quadro di finanza pubblica (su cui, supponiamo, andrebbe a gravare anche un’eventuale esposizione debitoria col Mes) produce come effetto immediato una fuga degli investitori dal nostro debito. Finiamo nel mirino della speculazione, spread alle stelle. Non avendo una banca centrale alle spalle, ci ritroviamo tra due fuochi: la speculazione da una parte, la mannaia del risanamento dall’altra. Tutto più o meno previsto nei Trattati, che, come abbiamo visto, contemplano “deviazioni temporanee” dal sentiero dell’austerità, ma a condizione che le stesse “non compromettano la sostenibilità del bilancio” nel medio periodo. In caso contrario, il meccanismo di correzione dei conti pubblici “è attivato automaticamente”, si deve rientrare nei ranghi. Il “pilota automatico” di cui parlò a suo tempo l’ex presidente della Bce Mario Draghi.

Automaticamente? Sì, perché quando i Buoni del Tesoro italiani (o di un altro Paese nella stessa situazione) saranno classificati come “titoli spazzatura”, la banca centrale non li comprerà più sul mercato secondario nell’ambito dei programmi di “allentamento quantitativo” (quantitative easing), né li accetterà come corrispettivo per la liquidità alle banche (è già successo in Grecia), che a loro volta si ritrovano con giganteschi buchi nei loro bilanci per effetto della svalutazione dei titoli che hanno in pancia. A quel punto, ci sarà un solo modo per rientrare nel gioco, anzi due: tagliare i servizi pubblici essenziali e affidarsi al Fondo Salva Stati.

Eccolo, il Mes, acronimo di Meccanismo Europeo di Stabilità. La cassaforte da cui i soldi escono soltanto dopo che il suo “Board of Directors” avrà valutato attentamente il livello di remunerazione del capitale (interessi passivi), la capacità di rimborso del debitore, gli impegni che quest’ultimo sarà disposto ad assumersi sottoscrivendo un apposito “memorandum d’intesa”, nel quale (contro)riforme e tagli alla spesa pubblica sono messi nero su bianco. Perché nelle valutazioni del Fondo, ciò che conta è la “prospettiva del creditore”, non il benessere dei cittadini, nonostante il capitale di questa istituzione sia costituito dalle quote versate – anche a debito – degli Stati membri.

Scenario apocalittico? Forse. Ma l’idea (o il timore) che potrebbe trattarsi di uno degli scenari possibili, dovrebbe indurre a grande cautela quelli che “il Mes senza condizioni può essere uno strumento da prendere in considerazione” (nell’accordo dell’Eurogruppo, comunque, non si parla di assenza di condizioni ma di “condizioni standard per tutti”), rinunciando in questo modo ad una battaglia dura, determinata, senza sconti, per una soluzione condivisa, solidale, alla crisi nella quale ci stiamo per infilare.

Quale soluzione condivisa? Vista l’eccezionalità della situazione, non dovrebbero esserci dubbi che il modo più rapido e più efficace per far fronte all’emergenza (e domani ai problemi di un’economia disastrata) sarebbe quello di finanziare direttamente, con moneta di banca centrale, i deficit di bilancio aggiuntivi. Come, peraltro, stanno facendo tutte le principali autorità monetarie del mondo, visto il carattere della moneta in questo tempo. Ma questa soluzione, purtroppo, non è nemmeno arrivata sul tavolo dei capi di governo dell’Unione. Rimane quello che noi italiani, per bocca del premier Conte, chiamiamo “strumento di debito comune” (gli Eurobond o Coronabond). Sarebbe già un passo in avanti, perché i soldi ai mercati non li chiederebbero i singoli Stati, ma l’Europa in quanto tale, con la sua forza. E, soprattutto, domani non ci sarebbero Paesi che dalla quarantena sanitaria passerebbero alla quaresima forzata.