Il peso dell’economia cooperativa non è affatto marginale, ma viene valutato secondo criteri inadeguati. Lo dimostrano due recenti studi di Bankitalia e Mediobianca
1. Le cooperative in Italia.
Anche se il peso dell’economia cooperativa non è di primissimo piano, non si può dire sia affatto marginale. Alcuni studi pubblicati negli ultimi anni hanno stimato che le cooperative incidano sul Pil nazionale in un range dal 5% al 7%[1] e diano occupazione a circa 1.200.000 persone. Il Centrostudi di Legacoop ha dimostrato come la dimensione media delle cooperative sia superiore alla media di tutte le imprese. Se le cooperative incidono attorno all’1,2/1,4% del numero totale delle imprese, il loro peso è mediamente attorno al 10% per le classi d’imprese con oltre 50 occupati. Le cooperative sono presenti in tutti i settori produttivi, ma il loro peso è alquanto diverso, passando da posizioni di leadership, come nella GDO alimentare, a situazioni marginali come nel settore manifatturiero.
Le cooperative occupano posizioni rilevanti nel settore del credito, delle costruzioni e della logistica. Da parte nostra abbiamo stimato che le cooperative occupino il 40% del mercato delle pulizie ed il 30% del mercato della ristorazione collettiva. Nel settore agro-alimentare le cooperative (o loro controllate) occupano posizioni primarie, come Valfrutta e Granarolo; nel settore vincolo le prime due imprese, Gruppo Riunite & Civ e Caviro, sono cooperative. Infine le imprese sociali (D. Lgs. 155/2006) sono quasi interamente cooperative.
Le organizzazioni storiche di rappresentanza del movimento, Legacoop, Confcooperative e Agci, stanno facendo un grosso (e non facile) sforzo di unione federativa, il cui primo passo è stata la nascita dell’Alleanza Cooperativa Italiana, che rappresenta queste imprese in modo unitario nelle diverse sedi istituzionali. Assieme rappresentano meno del 50% delle imprese, ma il loro peso in termini di fatturato e occupazione supera l’80%.
2. Le differenze fra cooperative e società di capitali
Recentemente sono state pubblicate due ricerche contenenti un raffronto fra società di capitali e cooperative. Il primo studio[2] è opera di due ricercatrici di Bankitalia e riguarda le cooperative dell’Emilia Romagna. Il secondo[3] è a cura dell’Ufficio Studi di Mediobanca e riguarda le imprese italiane del settore vinicolo. Entrambi gli studi sostengono la tesi che le cooperative avrebbero una redditività inferiore alle società di capitali.
Lo studio di Mediobanca analizza 107 imprese per gli anni 2006-2010, di cui 75 spa/srl e 28 cooperative (più 4 spa controllate). Il ROE[4] medio per l’intero periodo è stato del 3,7% per l’aggregato spa/srl contro il 2,1% per le coop, nonostante il loro vantaggio fiscale. Lo studio Bankitalia stima che nel periodo 2001-2009 la produttività del lavoro nelle cooperative sia stata inferiore del 27% rispetto alle altre imprese. Entrambi gli studi condividono un vizio (molto diffuso) di metodo: quello di indagare le due diverse tipologie d’imprese con gli strumenti propri delle imprese di capitali, confondendo la redditività dell’impresa con la redditività del capitale.
Basandosi sulla definizione di cooperativa fornita dall’International Cooperative Alliance, si è soliti affermare che nella cooperativa l’elemento centrale sia la persona e non il capitale, che svolge un ruolo strumentale rispetto alla valorizzazione della prima. A nostro avviso è una enunciazione poco chiara, che non aiuta ad interpretare l’impresa cooperativa sotto il profilo economico, ma che sconfina nel terreno antropologico, dove all’homo cooperativus si contrappone l’homo oeconomicus. Più semplicemente le due imprese hanno diversi sistemi di diritti di proprietà, sia sotto il profilo economico (diritto al residuo) che amministrativo (diritto di voto – “una testa – un voto” per le coop vs “una azione un voto” per le spa).
Il diritto al residuo prende la forma del ritorno sul capitale per le spa, contro il ritorno sullo scambio mutualistico per le coop (migliori condizioni/remunerazioni per il lavoro o il conferimento di materie prime agricole oppure minori prezzi d’acquisto, a seconda si tratti di una coop di lavoro, agricola o di consumo ecc.).
La gestione cooperativa presenta però un altro aspetto molto importante. Le cooperative nascono in contesti sociali finanziariamente fragili, per cui, per sopravvivere nel lungo periodo, hanno necessità di accantonare parti consistenti del surplus eccedente i costi in riserve patrimoniali. In Italia, al pari di altri Stati, vige un patto fra lo Stato e i soci cooperatori: lo Stato rinuncia (peraltro sempre meno) al prelievo fiscale sul surplus cooperativo che i soci destinano a riserva, purché gli stessi rinuncino ad ogni diritto sulle riserve accumulate e non soltanto per il periodo di vita della cooperativa, ma anche in caso di scioglimento: le riserve sono allora indivisibili in maniera assoluta e definitiva. Il presupposto del vantaggio fiscale delle cooperative sugli utili accantonati a riserva indivisibile, non è il loro reinvestimento nel ciclo produttivo, ma la rinuncia dei soci alla loro distribuzione.
3. La rappresentazione contabile dell’utile nelle cooperative e nelle società di capitali
Questa diversa configurazione dei diritti di proprietà comporta scelte gestionali differenti, ma, data l’uniformità degli standard contabili, la peculiarità della gestione cooperativa non trova adeguata rappresentazione. Questo vale anche per i sistemi di lettura dei bilanci che sono stati sviluppati per misurare il ritorno sul capitale investito dagli azionisti e non il ritorno sullo scambio mutualistico su cui è basato il rapporto socio-cooperativa. Applicare la stessa rappresentazione contabile e leggere i bilanci con la stessa metodologia per imprese con diversa configurazione dei diritti di proprietà può comportare solo giudizi distorti. Aiutiamoci con alcuni esempi.
Ipotizziamo due società vinicole perfettamente identiche dove la Soc A è una spa e la Soc B una cooperativa. Supponiamo inoltre che la Soc. B, prima della chiusura del bilancio, contabilizzi il conferimento delle uve da parte dei soci allo stesso costo sostento dalla Soc A per l’acquisto di pari quantità/qualità di uve. Il risultato economico ante imposte è perfettamente identico (per comodità supponiamo inoltre che il regime fiscale sia il medesimo). La Soc A presenta un utile U, che viene interamente distribuito agli azionisti sotto forma di dividendo, in proporzione al capitale sociale versato. Anche la Soc. B ha lo stesso utile U ed i soci deliberano di distribuirlo interamente sotto forma di ristorno, cioè di suddividerlo in proporzione alle uve conferite (scambio mutualistico). Entrambe le società hanno prodotto lo stesso utile U che hanno interamente ritornato ai soci, ancorché in base a parametri differenti che rispecchiano legittimamente le diverse finalità: capitale sociale per la SpA, scambio mutualistico le Coop. Ora però le regole contabili impongono alla Soc B di contabilizzare il ristorno come incremento del valore delle uve conferite per cui, dal punto di vista esclusivamente contabile, per la Soc B l’utile diventa un costo! La Coop presenterà quindi un costo più elevato ed un utile azzerato. Se interpretiamo la redditività delle due imprese basandoci sul ROE, arriveremo alla conclusione, palesemente errata viste le premesse, che la Soc A ha una maggiore redditività della Soc B, confondendo la redditività dell’impresa con la redditività del capitale.
Il problema diventa ancora più complesso per una cooperativa di lavoro. I soci, infatti, potrebbero deliberare di destinare parte dell’utile al miglioramento dei sistemi di sicurezza sul lavoro e, perchè no, all’assunzione di più persone per avere ritmi di lavoro meno stressanti. In questo caso la trasformazione dell’utile in costo è ancora più difficile da ricostruire. La nostra tesi è quindi che i confronti fra società di capitali e cooperative, se condotti con gli standard propri delle prime, possono essere facilmente fuorvianti. Le differenze che si rilevano non sono il frutto di efficienze diverse, ma di strumenti analitici inadeguati. Nello studio di Mediobanca è più che evidente questo tipo d’incomprensione e non è difficile dimostrare che la (presunta) minore redditività delle coop dipenda dal maggior costo pagato ai soci per le uve conferite.
4. Lo studio di Bankitalia.
Bankitalia, nella sua ampia attività di ricerca economica, non si era mai interessata di società cooperative, escludendo quelle operanti nel settore creditizio. Questa ricerca poteva essere un’interessante occasione, in parte persa. Lo studio non è molto ampio, ma ha la pretesa di toccare troppe questioni, alcune delle quali indagate in modo palesemente insufficiente (pensiamo in particolare al tema della governance).
Il tema che ci interessa maggiormente è il raffronto fra la produttività del lavoro nelle spa e nelle coop. Le due autrici hanno calcolato che le cooperative nel periodo 2001-2009 hanno avuto una produttività del lavoro inferiore del 27% rispetto alle imprese di capitali, ma sono riuscite a sopravvivere, registrando adeguata redditività, solo pagando meno i lavoratori! Purtroppo nulla è detto su come sono stati costruiti i due aggregati ed in particolare sul livello di omogeneità di settore, per cui resta un forte sospetto. Purtroppo fra le numerose tabelle presentate, non ci sono quelle che permettono di verificare questo aspetto, ma c’è un passaggio alquanto curioso dove si afferma che la produttività del lavoro è calcolata sul numero degli occupati e non sulle Unità di Lavoro Equivalenti. La cosa potrebbe essere tollerabile se si confrontassero imprese omogenee, operanti cioè nello stesso segmento produttivo, ma quando sono sommate, come sembrano fare le nostre ricercatrici, imprese operanti in tutti i settori, allora sorgono molti dubbi sulle conclusioni.
Le cooperative, infatti, sono principalmente presenti nel settore terziario dove è quanto mai diffusa l’occupazione part-time, al contrario di quanto succede nel settore manifatturiero, dove il loro peso è del tutto modesto. In una nostra recente ricerca abbiamo stimato che i contratti part-time rappresentino il 66,8% dell’occupazione totale nel settore delle pulizie e ben l’83,1% nel settore della ristorazione. L’occupazione part-time è diffusa anche nel settore della GDO. Forse sarebbe il caso di rivedere queste stime sulla produttività utilizzando un più adeguato strumento di calcolo dell’input di lavoro.
Per restare ottimisti, il nostro augurio è che in ogni caso Bankitalia s’impegni maggiormente a studiare il fenomeno cooperativo, contribuendo a creare adeguati sistemi d’indagine, perchè l’attuale cassetta degli strumenti usata appare piuttosto inadeguata (ma anche che il Movimento Cooperativo difenda meglio i propri risultati).