La legge di bilancio è rivolta all’indietro. Il governo sottovaluta gli interventi per un’economia sociale e solidale adottati invece in Francia, non considera rilevanti gli indicatori di benessere e ancora si attende una legge contro le delocalizzazioni.
La legge di bilancio attualmente all’esame del Parlamento italiano è pensata ed estesa con la testa del legislatore volta all’indietro. Se, infatti, dopo aver conquistato la valutazione degli indicatori di benessere equo e sostenibile (Bes) nella contabilità dello Stato – iniziative consolidate della società civile come la Campagna Sbilanciamoci!, cui Fairwatch contribuisce sin dagli esordi – lavora con l’università alla costruzione ed elaborazione di un nuovo indice sintetico di benessere, il cosiddetto Benessere Interno Lordo (BIL), per orientare la ripresa post Covid con delle dimensioni quantitative rappresentative di benessere multidimensionali e durature, il governo Draghi schiaccia la ripresa post-Covid del Paese sulla vecchia caricatura del paradigma della crescita che prescrive che a più regalie per le imprese corrispondano più produzione, più export e più investimenti privati, con un conseguente aumento algebrico del Pil, sinonimo di buona gestione delle casse pubbliche.
Che questa equazione sia tutt’altro che corretta, oltre che equa, dovremmo averlo capito ormai: l’Italia ha garantito flussi costanti di aiuti al settore privato anche negli anni dell’austerity in cui il settore pubblico e i lavoratori stringevano la cinghia. Il nostro, infatti, è l’unico Paese europeo in cui i salari sono diminuiti rispetto al 1990 del 2,9%, mentre in Germania aumentavano del 33,7% e in Francia del 31,10% . E queste ristrettezze si sono tradotte in lunghi anni di crescita stagnante, mentre le percentuali di Pil sottratte ai redditi da lavoro si trasferivano direttamente ai redditi da capitale. Parliamo, secondo Unctad, considerando il periodo che va dagli anni ’90 al pre-Covid, del 4% del Pil negli Usa, del 5% in Germania, del 10% in Francia ma di ben il 12% in Italia.
“In virus veritas”, è l’adagio che, come associazione, ripetiamo da qualche tempo. Che l’indebolimento progressivo del mercato interno fosse uno dei determinanti della stagnazione dell’economia nazionale, lo ammette anche Confindustria, che nell’ultima edizione dei suoi “Scenari industriali” analizza la resilienza dei sistemi manifatturieri del nostro Paese e dei sistemi concorrenti ammettendo che la buona tenuta del sistema industriale nazionale si deve al fatto che esso sia meno esposto dei suoi concorrenti alle “strozzature che stanno affliggendo le catene globali del valore in questo frangente. In base alla media delle risposte dalle imprese nella seconda parte del 2021, solo il 15,4% di esse ha lamentato vincoli di offerta alla produzione per mancanza di materiali o insufficienza di impianti, contro una media UE del 44,3% e a fronte addirittura del 78,1% dei rispondenti in Germania”.
In secondo luogo, ci viene spiegato che “la performance industriale italiana è spiegata innanzitutto da una dinamica della componente interna della domanda che, grazie alle misure governative di sostegno ai redditi da lavoro prima e di stimolo alla spesa dopo, ha dato un contributo decisivo alla ripresa della produzione nazionale. A fronte di un fatturato estero che ad agosto del 2021 ha segnato un +2,8% in valore rispetto al picco di febbraio 2020, il fatturato interno ha registrato nello stesso arco temporale un +7,0%”. Si ammette, così, uno dei postulati che sono stati alla base di tutte le campagne condotte da circa un ventennio dalle nostre organizzazioni, Cgil in testa, contro l’agenda di liberalizzazioni commerciali sfrenate spinta dalla Commissione europea negli ultimi vent’anni.
Un mercato interno più solido e uno Stato più ‘interventista’, inoltre, spingono sempre più imprese al backshoring, cioè a riportare in patria le produzioni precedentemente delocalizzate. Il fenomeno del rientro in Italia di forniture precedentemente esternalizzate non è marginale. Tra i rispondenti della ricerca di Confindustria che avevano in essere rapporti di fornitura estera, il 23% ha già avviato, negli ultimi cinque anni, processi totali o parziali di backshoring. Al primo posto tra le motivazioni addotte per spiegare il fenomeno “compare la disponibilità di fornitori idonei in Italia (il che significa che la passata esternalizzazione non ha determinato la scomparsa di reti di fornitura nazionale nell’ambito in cui opera l’impresa) – chiarisce Confindustria – e la possibilità di abbattere i tempi di consegna (il che implica che il ricorso alla fornitura nazionale è rimasto efficiente sul piano operativo)”. Quindi i costi maggiori che si sostengono a livello d’impresa in Italia per rispettare le condizioni contrattuali, ma anche di riduzione delle emissioni, smaltimento dei rifiuti e di trattamento delle acque reflue – tanto per citare tre dei costi principali nel capitolo ambientale – obbligatorie, almeno sulla carta, per operare in Italia, sono ampiamente compensate dai vantaggi. E ripagano anche a livello d’interesse generale: la manifattura italiana si conferma, anche nel 2020, tra le più virtuose al mondo in termini di ridotte emissioni, insieme a quella tedesca e francese.
Nella legge di bilancio del governo Draghi non c’è traccia di una strategia organica che abbracci queste constatazioni per ricostruire l’economia italiana tenendole in buon conto. Se sei un’impresa, basta dimostrare di aver speso o voler spendere in beni e/o servizi anche vagamente digitali o green per ricevere finanziamenti pubblici, non importa con quali esiti o impatti per la produzione, i lavoratori, il territorio, le filiere.
Spiace constatare che, ancor più che in passato, l’innovazione è intesa solo in senso tecnologico, senza alcuno spazio per la trasformazione sociale dei servizi pubblici e del welfare, sul quale invece si torna a stringere la cinghia, facendo anche le pulci alla, pur insufficiente, iniziativa del reddito di cittadinanza.
La legge di bilancio introduce, ad esempio, lo strumento dei “Patti territoriali per la transizione ecologica e digitale”, nell’ambito del programma di Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori (GOL), prevedendo accordi tra autonomie locali, soggetti pubblici e privati, enti del terzo settore, associazioni sindacali e datoriali per progetti formativi e di inserimento lavorativo nei settori della transizione ecologica e digitale, mirati a reinserire i lavoratori disoccupati, inoccupati e inattivi o riqualificare i lavoratori già occupati potenziando le loro conoscenze. Eppure sono noti i problemi di funzionamento dei Patti territoriali attivi e il loro schiacciamento sulla struttura produttiva esistente, che riduce la portata trasformativa della formazione nell’accompagnare processi di cambiamento necessario.
Si sostiene, auspicabilmente, con una decontribuzione, la creazione di cooperative di lavoratori che rilevino attività imprenditoriali in crisi, ma non si prevedono per esse strumenti specifici di accompagnamento alla riconversione ecologica e sociale rispetto alla gestione precedente. Si prevede di stanziare, però, ben 45 milioni di Euro per preparare l’Italia a partecipare a Expo 2025 che si terrà a Osaka, e altri 1.340 per strutturarla per il Giubileo che si celebrerà a Roma nello stesso anno.
Eppure bastava allungare l’occhio Oltralpe per intravedere alcune possibilità differenti: la Francia, ad esempio, ha destinato più di un miliardo di euro a progetti di “economia sociale e solidale” con il programma “UrgencESS” all’interno del Piano France Relance, il loro Pnrr. D’altronde è dal 2014 che la Francia sostiene la diffusione dell’economia sociale e solidale con una legge specifica, cui sovrintende, al fianco del ministro per l’Economia Bruno Le Maire, Olivia Grégoire, vice ministra all’economia sociale, solidale e responsabile.
Poter fare Economia sociale e solidale in Italia significherebbe, ad esempio, avere città come Madrid, Barcellona, Amsterdam e Siviglia, che hanno elaborato piani di sviluppo ed innovazione sociale locale mettendo al centro l’economia sociale e solidale come strategia per la costruzione di “eco-sistemi” urbani solidali e sostenibili allo stesso tempo.
Se la legge di bilancio 2022 promuove interventi diretti a salvaguardare l’occupazione e assicurare la continuità delle attività imprenditoriali, tramite la nuova costituzione di società cooperative formate dai dipendenti stessi dell’azienda – come proponiamo insieme a Sbilanciamoci! – si potrebbero sostenere nuove cooperative di lavoratori interessate a forme di mutualismo e di tutela dei beni comuni, oltre che di riconversione eco-equo-solidale nel ciclo produttivo, studio di nuovi prodotti, catena di forniture, approvvigionamento energetico, riqualificazione di luoghi in disuso a fini produttivi.
Non sono solo idee, lo stiamo già facendo: quando il 9 luglio scorso la società GKN annunciò per la prima volta ai suoi 422 dipendenti dello stabilimento dell’automotive di Campi Bisenzio l’avvio della procedura di licenziamento, come associazione ci siamo messi a disposizione del Collettivo di fabbrica per accompagnarlo in un percorso di pressione sulle istituzioni rispetto alla propria situazione, ma anche di analisi delle possibili prospettive di evoluzione della vertenza. Gkn, in questa traiettoria, con il sostegno di un importante gruppo di giuristi, ha elaborato e proposto un Ddl per arrestare le delocalizzazioni in Italia che è stato presentato in Parlamento: al centro della proposta l’intervento attivo dello Stato, con la possibilità di inserire Cassa depositi e prestiti nella proprietà, come clausola di salvaguardia. Inoltre, insieme all’Istituto Sant’Anna di Pisa e a un gruppo nutrito di economisti e esperti solidali, stiamo contribuendo a elaborare un Piano multilivello contro la delocalizzazione di GKN, per la stabilità occupazionale e per la reindustrializzazione del sito produttivo, perfettamente coerente con gli obiettivi del Pnrr nazionale. Esso prova a disegnare una prospettiva di riconversione produttiva ridefinendo il ruolo degli attori pubblici esistenti e dei possibili nuovi assetti proprietari, prevedendo una nuova forma di controllo e gestione della fabbrica con la valorizzazione del sapere operaio e la costituzione di una relazione fabbrica-università in grado di mettere in rapporto strutturato e funzionale all’ammodernamento tecnologico del Paese i diversi attori del territorio.
L’economia sociale e solidale funziona così: stringe legami di prossimità e convergenza, verifica e innova le strategie nazionali calandole nelle esigenze dei territori in un’ottica trasformativa molto concreta. Nella legge di bilancio non c’è traccia, nel presente del nostro Paese c’è già.
*Associazione Fairwatch