Le nuove iniziative in materia antitrust varate dall’amministrazione Biden potrebbero aprire un nuovo capitolo nella storia della politica industriale americana. Ma anche inaugurare un nuovo terreno di competizione con il grande rivale degli Usa: la Cina.
“The interest of the dealers (…) in any particular branch of trade or manufactures, is always in some respects different from, and even opposite to, that of the public. To widen the market and to narrow the competition, is always the interest of the dealers”.
Adam Smith, The Wealth of Nations
L’economia ha ricevuto l’indelebile marchio di “scienze triste” a causa delle cupe profezie del reverendo Malthus. La finanza ha forse tentato di sottrarsi a questo destino attingendo le proprie figure da un fiabesco, mirabolante bestiario medioevale. E così i consigli direttivi delle banche centrali sono spesso diventati il terreno di scontro fra falchi e colombe, mentre tori, orsi, mucche, cervi, e perfino cigni neri e rinoceronti grigi si contendono il terreno dei mercati azionari.
Una fra le creature più evocative del bestiario della finanza è senza dubbio l’unicorno, termine con cui si è soliti definire una start-up non ancora quotata del valore di più di un miliardo di dollari. Sono stati unicorni anche aziende molto familiari al grande pubblico, come Spotify o Airbnb. Il valore complessivo degli unicorni contemporanei si aggira intorno ai 2.4 trilioni di dollari. Ma non è così semplice spiegare le valutazioni da capogiro cui sono associati: in molti casi queste aziende non hanno praticante asset fisici, e le previsioni sul flusso dei loro profitti futuri sono talmente incerte da sconfinare in quella stessa arte magica che attribuisce virtù curative al loro corno. Un’analisi più razionale porterebbe a riflettere sulla progressiva concentrazione che ha caratterizzato in particolare l’industria tecnologica, dominata da una manciata di giganti globali: Microsoft, Apple, Google, Amazon, Facebook. I giovani unicorni, infatti, vengono spesso comprati da soggetti più grandi al fine di tutelare posizioni dominanti nel mercato. Non a caso Facebook ha acquistato Instagram e WhatsApp, Microsoft ha fatto lo stesso con Skype, Disney ha comprato Pixar, e l’elenco potrebbe proseguire ancora a lungo.
Negli Stati Uniti – il paese “campione mondiale” di capitalismo – la legislazione antitrust è stata per lungo tempo uno dei cardini del contratto sociale. La concorrenza era un elemento fondante dell’autonarrazione di una nazione che amava dipingersi come una terra di piccoli produttori indipendenti, plasmata dal mito della frontiera e dallo spirito di avventura e intraprendenza: “Se non tolleriamo che si conceda ad un re il potere politico, non dovremmo tollerare alcun re anche nella produzione, trasporto e vendita dei prodotti necessari alla nostra vita”: così diceva il senatore John Sherman, il padre dello Sherman Antitrust Act (1890), la prima legge statunitense in materia.
È ormai da qualche decennio, tuttavia, che la vecchia filosofia antitrust è stata messa ai margini. Le creature nient’affatto mitologiche che hanno accompagnato l’ascesa al potere del Reaganismo[1] erano certamente dei gagliardissimi falchi quando si parlava di tasse o legislazione sindacale, ma erano molto più simili a docili colombe quando il discorso verteva sulle grandi corporation private.
Robert Bork è considerato il padre della dottrina giuridica antitrust diventata dominante non solo nelle istituzioni governative, ma anche nei tribunali americani, fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Formatosi alla Università di Chicago e professore alla Yale Law School, Bork fu procuratore generale sotto le amministrazioni Nixon e Ford (dal 1973 al 1977). Pare che i suoi studenti dell’università di Yale avessero ironicamente ribattezzato “protrust” il suo corso sulla legislazione antitrust. Nel 1978 pubblicò un libro che divenne molto popolare – The Antitrust Paradox – e che riassumeva il suo credo: leggi come lo Sherman Antistrust Act dovevano trovare la loro legittimazione ultima nel “benessere del consumatore”, più che in astratte considerazioni sulle strutture del mercato. Fintanto che la concentrazione porta a prezzi più bassi, la collettività, e i giudici chiamati a pronunciarsi per suo conto di essa, dovrebbero solamente rallegrarsi del risparmio. D’altra parte, era il consumatore, non più il produttore, il nuovo eroe del racconto collettivo americano.
Questa visione andava a fondersi con un altro tratto caratteristico della cosiddetta scuola di Chicago: l’inscalfibile ottimismo verso la capacità del mercato di ricreare spontaneamente la concorrenza anche là dove fosse venuta provvisoriamente meno: “La competizione è una erbaccia molto resistente, non un fiorellino delicato”, amava ripetere George Stigler. Milton Friedman era stato da giovane un grande sostenitore della legislazione antimonopolisita. Ma aveva poi rivisto le sue posizioni, convergendo su quelle di Stigler: “Nel corso del tempo sono giunto alla conclusione che le leggi antitrust fanno più male che bene e che sarebbe meglio se fossero cancellate del tutto”, commentò a proposito della sentenza del 1998 contro la Microsoft di Bill Gates nella causa intentata dall’amministrazione Clinton per comportamento anticoncorrenziale[2].
L’unione di queste due tendenze, e il loro farsi progressivamente egemoni, portò a un marcato cambiamento nell’atteggiamento verso la normativa antitrust non solo delle istituzioni politiche, ma, come detto, degli stessi giudici. Negli Stati Uniti è la Federal Trade Commission (FTC) l’agenzia governativa incaricata di implementare, insieme al Dipartimento di Giustizia, le normative antitrust. Tale agenzia passò dal vincere l’88% delle cause nella prima metà degli anni Settanta, al 43% nella seconda metà. L’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca sancì il definitivo trionfo del nuovo corso nella patria del senatore Sherman. Nei paesi dove la rivoluzione conservatrice si prefiggeva principalmente il compito di privatizzare il patrimonio industriale pubblico – come nel Regno Unito di Margaret Thatcher – le virtù della concorrenza continuarono ancora a lungo ad essere evocate. Ma anche lì l’attenzione si concentrava molto più sugli assetti proprietari che sulle strutture di mercato.
La nuova amministrazione Biden sembra ispirata da una diversa filosofia. Nel 2017 Lina Kahn era una giovane studentessa di Yale, la stessa università dove aveva insegnato per tanti anni Bork. Quell’anno pubblicò un articolo assai “revisionista” a proposito dell’esperimento intrapreso dall’economia americana negli ultimi quarant’anni: Amazon’s Antitrust Paradox. Secondo Kahn l’attuale regolamentazione antitrust, basata sul principio del “benessere del consumatore”, ovvero sugli effetti sui prezzi nel breve periodo, non è in alcun modo attrezzata per cogliere le conseguenze negative di lungo periodo di posizioni dominanti nel mercato. Molti dei nuovi giganti del web offrono gratis agli utenti molti dei propri servizi. Ne consegue che una valutazione del loro ruolo informata esclusivamente dal prezzo finale per il consumatore conceda un limitatissimo spazio di manovra agli organismi chiamati a dare applicazione alle normative antitrust. In anni recenti si è quindi fatto strada un approccio alternativo. Un approccio, diciamo così, più “olistico”. La scuola cui fa riferimento viene talvolta definita neo-Brandeisian, dal nome del giudice Luis Brandeis, nominato alla Corte Suprema nel 1916 dal presidente Wilson e noto per le sue forti posizioni antimonopoliste.
Il 15 giungo scorso Lina Kahn ha giurato come presidente della FTC, designata dalla nuova amministrazione. Qualche settimana dopo, il 7 luglio, il presidente Biden ha inoltre approvato un ordine esecutivo contenente 72 iniziative in materia di concorrenza. La novità del metodo si coglie sin dall’elenco dei soggetti a tutela dei quali la normativa è diretta: “l’eccessiva concentrazione di mercato” – si legge nel comunicato ufficiale della Casa Bianca – “minaccia le libertà economiche fondamentali, il processo democratico, il benessere dei lavoratori, degli agricoltori, delle piccole aziende, delle startup e dei consumatori”. I settori verso cui il pacchetto di misure si indirizza sono principalmente quelli dell’industria sanitaria, finanziaria, tecnologica, delle telecomunicazioni e dei trasporti.
Un’attenzione particolare meritano le misure sul mercato del lavoro, e più precisamente quelle sui cosiddetti no-poaching agreements (dall’inglese to poach: cacciare di frodo sulla proprietà altrui). Lungi dall’interessare solo i “colletti bianchi”, queste clausole impediscono di fatto a 36 milioni di lavoratori di lasciare il proprio posto di lavoro per accettarne uno meglio retribuito. I ristoranti McDonald’s, ad esempio, operano nell’ambito di un contratto di franchising che regola la loro affiliazione al marchio. Il contratto prevede l’impegno da parte dei gestori dei ristoranti a “non assumere o cercare di assumere nessun lavoratore al momento impiegato dalla McDonald’s o da qualsiasi delle sue sussidiarie”, oppure che abbia anche solo lavorato per McDonald’s negli ultimi sei mesi. L’effetto è naturalmente quello di una estrema segmentazione dell’offerta di lavoro con conseguente depressione del livello dei salari. Secondo una stima di Alan Kruger e Orley Ashenfelter[3] su dati del 2016, ben il 58% dei contratti in un campione di 156 fra le più grandi catene di franchise negli Stati Uniti includono clausole di questo genere. Non solo McDonald’s, dunque, ma anche tanti altri grandi marchi americani: dal concorrente di McDonald’s Burger King, alle officine Jiffy Lube, fino alla società di consulenze fiscale H&R Block.
Le conseguenze pratiche delle nuove misure varate dalla Casa Bianca dipenderanno non solo dall’efficacia dell’azione di implementazione delle varie agenzie federali coinvolte, ma anche dalla volontà dei giudici di dare corso alla nuova dottrina. Poche settimane prima che Lina Kahn presentasse giuramento, ad esempio, un giudice federale ha bocciato le istanze presentate dalla FTC e da 46 governi statali conto Facebook, accusata di aver cercato di limitare la concorrenza attraverso l’acquisto di Instagram (2012) e WhatsApp (2014). Lo scorso 19 Agosto la FTC ha presentato un nuovo ricorso, con un testo di 80 pagine che si apre con la citazione di una frase pronunciata dal Ceo[4] di Facebook Mark Zuckerberg nel 2008: “It is better to buy than compete” (meglio comperare che competere). Fedele a questa massima, continua il documento della FTC, “Facebook ha sistematicamente monitorato i potenziali rivali e ha acquistato le società che riteneva potessero rappresentare una seria minaccia competitiva”. Questo comportamento avrebbe premesso all’azienda di Zuckerberg di superare il passaggio d’epoca più critico della sua storia: quello della transizione dalla navigazione in internet via personal computer al dilagare degli smartphone: “Avendo fallito nella competizione basata sul talento imprenditoriale, Facebook ha sviluppato un piano per mantenere la sua posizione dominante”: tramite l’acquisto dei propri rivali “ha eliminato la possibilità che questi utilizzassero il potere dell’internet mobile per sfidare il suo dominio”.
Lo scontro fra Facebook e la FTC potrebbe inaugurare una nuova era nella storia della politica industriale americana. Ma potrebbe anche indicare un nuovo terreno di competizione con la Cina, dove la stretta nei confronti dei grandi giganti tecnologici è cominciata da tempo. Ne hanno fatto le spese colossi come Ant Group, il braccio finanziario di Alibaba (l’Amazon cinese), la cui quotazione in borsa è stata sospesa pochi giorni prima della data fissata; l’azienda di trasporti Didi, espulsa dagli app store cinesi pochi giorni dopo la sua quotazione a New York; e l’intera industria delle ripetizioni scolastiche (la cosiddetta industria edtech), cui è stato praticamente imposto di operare come un settore no-profit. La State Administration for Market Regulation (SAMR), ovvero l’agenzia antitrust cinese, ha messo inoltre nel mirino diversi gruppi dell’e-commerce, come JD.com e Pinduoduo.
Nel duello a distanza fra l’aquila americana e il dragone cinese, il bestiario medioevale della finanzia potrebbe cedere il posto all’altrettanto immaginifico bestiario della geopolitica.
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Note
[1] Dal nome del quarantesimo presidente americano Ronald Reagan, che ha occupato la Casa Bianca dal 1981 al 1989.
[2] Al centro della disputa c’era l’accusa mossa alla Microsoft di ostacolare l’utilizzo di browser alternativi al suo Internet Explorer all’interno dell’ambiente Windows.
[3] Alan Kruger e Orley Ashenfelter: “Theory and evidence on employer collusion in the franchise sector”. National Bureau of Economic Research, No. w24831, 2018.
[4] Chief Executive Officer.