Due recenti tentativi di attribuire un ruolo nuovo alla creatura di Lord Keynes, per meglio affrontare la crisi della finanza internazionale e renderla maggiormante utile, si sono scontrati con il liberismo sempre prevalente come indirizzo inevitabile.
Nel suo discorso (1) al Brookings Institution di Washington, in occasione dell’annuale meeting primaverile, Dominique Strauss-Kahn ha citato la Teoria Generale nel passaggio in cui Keynes afferma che: “Le più grandi colpe del sistema economico in cui viviamo sono rappresentate dall’incapacità di raggiungere il pieno impiego e dall’arbitraria e diseguale distribuzione della ricchezza e dei redditi”.
A sentire il direttore generale dell’Fmi, sembra che l’approccio di questa importante Istituzione stia vivendo profonde modifiche.
In effetti, negli ultimi anni si sono registrati numerosi cambiamenti almeno dal punto di vista teorico-scientifico.
Nel febbraio del 2010, gli economisti dell’Fmi avevano “scoperto” che quei paesi in via di sviluppo che avevano adottato forme di controllo dei capitali risultavano anche i meno colpiti dalla crisi.
Nello stesso periodo veniva pubblicato un paper dal titolo emblematico: “Rethinking Macroeconomic policy”, in cui un gruppo di economisti del Fondo, tra cui Olivier Blanchard (capo del Dipartimento di ricerca), sottolineavano la necessità di un ripensamento della politica macroeconomica a partire da una possibile modifica dell’inflation targeting (aumentando per esempio il tasso d’inflazione posto come target) e da un maggiore coordinamento tra politiche fiscali e politiche monetarie.
Ma ancora più interessanti risultano due recenti report pubblicati dall’Fmi in cui si affronta il tema del controllo dei capitali e si individuano le circostanze in cui una nazione dovrebbe adottare misure di questo genere.
Se fino all’anno scorso questi interventi risultavano banditi da qualsiasi agenda di politica economica, oggi sembra che il Fondo stia elaborando un nuovo framework che aiuti i paesi a gestire i flussi di capitali.
Le analisi degli economisti dell’Fmi hanno finalmente dimostrato che, in alcuni casi, gli afflussi di capitale possono rendere un paese più vulnerabile esponendolo maggiormente a crisi finanziarie.
Nel nuovo set di politiche elaborato dall’Fmi vi sono alcuni punti fermi:
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la necessità di misure diversificate a seconda della specificità economica del paese considerato;
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l’adozione di riforme strutturali che rafforzino, per esempio, i mercati di capitali nazionali;
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politiche macroeconomiche efficaci;
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l’inserimento dei controlli sui capitali come misura adeguata di intervento in alcune circostanze;
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la scelta di interventi che massimizzino l’efficienza, minimizzando distorsioni ed effetti collaterali;
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l’adozione di un approccio globale che guardi con attenzione alla stabilità degli altri paesi.
In particolare, i due report, “Recent Experiences in Managing Capital Inflows…” e “Managing Capital Inflows: What Tools to Use”, introducono tre novità (2) nel dibattito economico dell’Fmi.
La prima afferma che i flussi di capitali diretti verso i paesi in via di sviluppo nel post crisi, hanno avuto un effetto destabilizzante (apprezzamento della valuta, bolle finanziare, volatilità), al punto che alcuni di questi paesi hanno giustamente deciso di frenarli attraverso misure di controllo, rivelatesi poi efficaci.
La seconda novità consiste nella proposta di una nuova denominazione per i controlli di capitale: “Capital Flow Managment measures” (CFMs), al fine di rimuovere un atteggiamento refrattario consolidatosi di fronte all’espressione “controlli”.
La terza, infine, individua un set di linee guida che i paesi dovrebbero seguire nonché designa in termini generali le diverse tipologie di controllo da adottare.
Ma è proprio in quest’ambito che l’analisi delude maggiormente. Manca, infatti, una reale determinazione dell’efficacia dei CFMs e una definizione concreta delle diverse tipologie di controlli. L’Fmi si limita per lo più a raccomandare l’adozione di misure temporanee, senza però affrontare il problema della provenienza dei capitali e di un loro possibile trattamento diversificato. Ciò stride con la realtà quotidiana che vede molti paesi già impegnati in diverse misure di controllo, (discriminatorie e non), sugli afflussi di capitali esteri. Sembra inoltre mancare la volontà precisa di perseguire e promuovere delle riforme a livello globale al fine di rendere davvero efficaci i CFMs e non rischiare che essi vengano evasi dagli investitori stranieri sfruttando l’intricata rete di trattati commerciali attualmente in vigore. L’analisi si concentra unicamente sui capitali in entrata, attraverso la previsione di un sistema di tassazione da applicare ai capitali stranieri, di più rigidi requisiti di riserva, di un periodo minimo di giacenza all’interno del paese, ma non affronta minimamente la questione dei capitali in uscita.
Quali saranno allora i paesi che avranno l’interesse e la possibilità di applicare tali controlli?
Secondo Jayati Ghosh (3), quegli stessi paesi che di fronte a continui afflussi di capitale, hanno deciso molto tempo fa di adottare misure simili senza aspettare di certo il beneplacito dell’Fmi (Brasile, Cile, Thailandia ecc.).
Viceversa, i paesi con forti squilibri della bilancia dei pagamenti, che necessiterebbero di un maggiore controllo sui deflussi di capitali, vengono incitati dall’Fmi a perseguire la liberalizzazione finanziaria al fine di rassicurare gli investitori.
Eppure la necessità di un coordinamento a livello globale della regolamentazione sui flussi di capitale risultava chiara già ai tempi dell’istituzione dell’Fmi, quando John Maynard Keynes e Harry Dexter (4) concordavano nel dire che delle misure di controllo dovevano essere imposte da entrambe le parti, per evitare che il peso di tali restrizioni ricadesse solo su uno dei due paesi.
Sembra che l’Fmi abbia fatto un importante passo in avanti, per poi fermarsi l’istante successivo.
La credibilità di questa istituzione finanziaria internazionale creata nel 1944 a seguito degli accordi di Bretton Woods con l’obiettivo di promuovere la cooperazione monetaria internazionale e la stabilità dei cambi, di sostenere la crescita economica e l’occupazione offrendo assistenza finanziaria a paesi con difficoltà di bilancia dei pagamenti, risulta essere attualmente offuscata.
Più volte il Fondo è stato accusato di aver incoraggiato liberalizzazioni dei mercati finanziari che hanno spinto i paesi verso gravi crisi economiche (crisi finanziaria asiatica, default Argentina); e più volte sono state messe in discussione le condizioni imposte ai paesi in difficoltà per ottenere prestiti e finanziamenti (E. Stiglitz La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi 2002).
Se consideriamo poi che tra gli strumenti assegnati al Fondo vi è l’erogazione di prestiti di breve e medio termine a paesi in difficoltà e calcoliamo l’ammontare di finanziamenti effettivamente concessi tra il 2009 e il 2010, possiamo velocemente avere un’idea dell’attuale crisi in cui esso versa: infatti solo il 16% delle risorse disponibili è state utilizzato a tal fine, e non certo per scarsità di bisogni.
Il mancato intervento nei confronti della Grecia per esempio, spinge alcuni, come Mark Weisbrot sulle pagine del Guardian, a sospettare che l’Fmi sia fortemente influenzato nelle sue politiche dagli interessi dei creditori, al punto da non riuscire a perseguire autonomamente i propri fini statutari.
Il problema dell’autonomia e dell’indipendenza è stato affrontato in una recente ricerca dell’Independent Evaluation Office (Ieo), istituto nato nel 2001 con il compito di condurre valutazioni obiettive sulle politiche e sulle attività del Fondo.
In questo report, l’Fmi viene fortemente criticato per non essere riuscito ad individuare e riconoscere con tempestività i fattori scatenanti della peggiore crisi economica dal 1929.
In particolare, viene biasimata la scarsa attenzione rivolta a quelle voci discordanti, come Raghuram Rajam che, già nel 2005 metteva in guardia sulla crescente fragilità del sistema finanziario.
E qui subentra il dato più allarmante della ricerca, ovvero la sistematica difficoltà di alcuni membri dello staff di economisti del Fondo di assumere posizioni critiche, di avanzare proposte in contrasto con la sua tradizione neo-liberista.
Si è consolidato, secondo la ricerca, un groupthink (5), che condiziona l’operato dello staff in maniera dirimente.
È superfluo sottolineare il grave impatto che una realtà di questo genere, determina o determinerebbe in termini di perdita di efficacia e credibilità degli interventi del Fondo.
Se da una parte c’è chi (6), invocando l’applicazione delle più concorrenziali leggi di mercato, scorge una forma estrema di incentivo nella possibilità di licenziamento degli intoccabili staff members dell’Fmi che sbagliano ripetutamente previsioni, e dall’altra c’è chi valuta il calo dei prestiti dell’Fmi come un dato positivo in termini di maggiore libertà per quei paesi in passato costretti ad accettare le dannose condizioni vincolanti imposte dal Fondo per ottenere finanziamenti; senza dubbio risulta necessaria una profonda riforma e riorganizzazione di tali istituzioni.
È una sfida che va assolutamente colta.
Tali organismi rimangono strumenti potenzialmente preziosi per promuovere una reale cooperazione internazionale e un miglioramento del nostro sistema economico.
1 Intervento integrale: www.imf.org 2 Tale aspetto viene approfondito nell’articolo di Kevin Gallagher e Josè Antonio Ocampo sul Guardian del 6 aprile 2011. 3 Secondo l’economista Ghosh, l’Fmi si è costantemente dimostrato incapace di svolgere il suo compito e necessita di profondi cambiamenti. 4 “The contemporary reform of Global Financial Governance: Implications and lessons from the past ” di Eric Helleiner 5 Groupthink, o pensiero di gruppo, è il termine con cui nella letteratura scientifica si indica il sistema di pensiero esibito dai membri di un gruppo sociale per minimizzare i conflitti e raggiungere il consenso senza un’analisi ed una valutazione critica delle idee (fonte: Wikipedia) 6Dean Baker, www.guardian.co.uk