Manca poco al vertice di Copnhagen, e in Italia il dibattito è assente. La proposta del “global reboot”: una nuova stagione della lotta al cambiamento climatico
Mancano circa cinquanta giorni alla conferenza di Copenhagen sul clima e non c’è niente di nuovo sotto il sole. Con il fallimento delle trattative di Bangkok, il cammino del post-Kyoto si fa ancora più arduo. Nel frattempo la questione climatica resta assente dal dibattito italiano. Il nostro governo non ha una posizione chiara sull’argomento e, probabilmente, lascerà che siano gli altri a decidere, salvo poi non rispettare i patti come ormai l’Italia fa da decenni. Continuando a versare lacrime di coccodrillo per i morti di Messina, le case spazzate via dall’acqua e le continue vittime dei disastri climatici che ci colpiscono ormai regolarmente. Senza considerare le migliaia di rifugiati che fuggono dalla desertificazione e dalle inondazioni, come quelle che hanno colpito l’India recentemente, per poi arrivare nel nostro paese ad ingrossare le fila di un’immigrazione che non siamo capaci di gestire.
Pur di non cambiare
In questi anni, i governi e i grandi complessi industriali ne hanno inventate di tutti i colori pur di non cambiare rotta. Dopo aver negato il legame tra effetto serra e riscaldamento globale, si è ora inaugurata la stagione del techno-fix, cioè della soluzione tecnica che ci consenta di continuare la nostra vita come se niente fosse per lasciare che siano i mercati a risolvere il problema. Una delle tecniche più in voga al livello globale è il cosiddetto offsetting, meglio conosciuto come sistema di compensazione delle emissioni inquinanti. Le politiche di offsetting sono tutte quelle iniziative volontarie che mirano a compensare le emissioni inquinanti dei paesi industrializzati con la riforestazione nei paesi meno sviluppati o l’investimento massiccio in energie rinnovabili. Queste politiche, in parte favorite dal protocollo di Kyoto, hanno generato un vero e proprio boom di ditte e ONG che offrono pacchetti personalizzati per industrie e privati. Con poche decine di euro, si possono finalmente compensare le emissioni causate dai propri viaggi in aereo, dall’uso dell’automobile o dalla filiera produttiva della propria industria. In realtà, questi sistemi pongono numerosi problemi dal punto di vista tecnico e morale. La critica morale è facilmente comprensibile: se l’atmosfera è un bene pubblico da salvaguardare, perché dovremmo offrire la possibilità ad alcuni paesi (o alcuni individui) di continuare ad inquinare facendo poi l’elemosina a paesi più poveri perché si impegnino a non fare lo stesso? La critica tecnica, invece, è più articolata e dimostra efficacemente come la compensazione non sia altro che un miraggio. Prima di tutto esiste un problema di tempi. Sia la riforestazione, sia l’investimento in tecnologie verdi (il fotovoltaico, l’eolico, ecc.) non producono alcuna compensazione nell’immediato. Gli alberi assorbono anidride carbonica a sufficienza solo dopo un lungo periodo di maturazione. I pannelli solari e le turbine eoliche vengono prodotti con energia inquinante (normalmente prodotta con combustibili fossibili che emettono gas serra) e soltanto dopo alcuni anni entrano in un bilancio energetico positivo, cioè creano più energia di quella necessaria per produrli. Tutto ciò non viene calcolato nelle politiche di compensazione, con il rischio quindi che nel breve periodo l’offsetting finisca con l’aumentare i gas serra nell’atmosfera invece di ridurli. Se poi le foreste non vengono tutelate accuratamente per la loro intera vita biologica c’è il rischio che l’anidride carbonica assorbita ritorni in circolo, magari tra un generazione o due. Basta un incendio per disperdere l’immagazzinamento di interi decenni. E quanti incendi abbiamo nel mondo? E in Italia? Se poi lasciamo che gli alberi si decompongano, come accade nel loro ciclo naturale, questo produce nuova dispersione di gas serra nell’atmosfera. Piantare un albero è quindi molto più complesso di quanto si pensi e richiede un impegno sistematico a lungo termine, cosa molto difficile da ottenere, specialmente in paesi che soffrono di crisi politiche ed economiche ricorrenti. Poi esistono problemi di giustizia sociale legati alle dinamiche distorte e innaturali innescate da questi processi. Infatti, le politiche di compensazione possono creare veri e propri squilibri nei paesi del sud globale. Siccome lo sfruttamento della terra a fini di riforestazione garantisce entrate a pioggia per i governi locali (grazie alle risorse investite dai governi e dai privati del nord globale), c’è il rischio che la terra venga sempre più utilizzata per la creazione di foreste monocoltura e meno per lo sviluppo dell’agricoltura locale, che è in realtà l’unica prospettiva sostenibile per garantire cibo alle popolazioni più povere. Quindi non è un caso che siano proprio le multinazionali petrolifere a cavalcare l’onda di investimenti in questo settore, in buona parte sfruttando la buona fede dei cittadini che vorrebbero fare qualcosa per arrestare o per lo meno mitigare i cambiamenti climatici in corso.
Dalla mitigazione all’adattamento
L’incapacità dei principali governi mondiali di trovare un accordo multilaterale credibile ha ritardato il processo di riduzione delle emissioni. Dall’entrata in vigore del protocollo di Kyoto nel 2005 le emissioni complessive di gas serra sono aumentate. Anche all’interno dell’Ue, solo una manciata di paesi ha rispettato i patti, con l’Italia – ovviamente – sempre in fondo alla lista.
Non è un caso, quindi, che il dibattito internazionale si stia spostando sempre più dalle politiche di mitigazione a quelle di adattamento. A Bangkok i paesi più poveri hanno chiesto un maggiore impegno da parte di Europa e America nel finanziare nuove infrastrutture (come barriere contro l’innalzamento degli oceani o intere ri-urbanizzazioni delle città più esposte) e scambi di tecnologia per aumentare la resistenza delle abitazioni ai fenomeni atmosferici. Anche se i cittadini europei non lo sanno, di politiche di adattamento si parla sempre più spesso anche tra le elite tecnocratiche del vecchio continente. Il libro bianco sull’adattamento al cambiamento climatico, pubblicato in sordina dall’Ue nell’Aprile 2009 (http://ec.europa.eu/environment/climat/adaptation/index_en.htm), rivela che, anche qualora le emissioni si arrestassero di colpo, ci vorrebbero decenni prima affinché l’atmosfera si depuri dei gas già in circolazione. Quindi, sottolinea l’Ue, l’Europa verrà comunque investita dalla crisi climatica per almeno i prossimi cinquant’anni, con effetti diretti (aumento di inondazioni e sbalzi di temperatura esponenziali tra estate e inverno che renderanno inadeguata la disponibilità energetica attuale) e indiretti (un flusso di rifugiati climatici che potrebbe interessare oltre un miliardo di persone con conseguenze più devastanti della seconda guerra mondiale). E i nostri governi come si stanno preparando?
Resettare il sistema
Anche dai politici più lungimiranti, i cambiamenti climatici vengono considerati un problema isolato, una questione puramente ecologica, invece di essere interpretati come l’ultimo segno dell’insostenibilità economica, politica e sociale di un modello di sviluppo ciecamente orientato alla crescita. Sono secoli che lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali crea ingiustizie sociali a livello planetario, favorendo la sovrapproduzione di prodotti di consumo per una minoranza, la scarsità endemica per la maggioranza e la gestione politica del globo da parte di un manipolo di governi e imprese multinazionali. Negli ultimi tempi anche il sistema economico creato da questo modello ha dimostrato tutte le sue debolezze: dalle crisi a cascata degli anni ’90 al collasso economico globale dell’ultimo anno. Ora, infine, la questione si allarga anche al clima. È evidente che si tratta di una crisi sistemica, che però ci ostiniamo a negare. Se, ipoteticamente, riuscissimo ad arrestare il riscaldamento del pianeta nei prossimi anni, ci troveremmo comunque con tutte le ingiustizie e le tensioni di prima.
Non varrebbe la pena concentrarsi sulle cause del problema invece che sui sintomi? In quest’ottica la lotta contro i cambiamenti climatici potrebbe diventare l’occasione per una rivoluzione globale del modello di sviluppo imperante, che dagli USA alla Cina misura il benessere soltanto in termini di crescita dell’economia. Se nel futuro c’è l’adattamento, perché non provare ad ‘adattarci’ ad una società profondamente diversa? A partire dalle persone, dai territori e dalle reti che continuano a crescere a livello locale.
L’autore è promotore della campagna Global Reboot e autore del documentario “L’era dell’adattamento” www.globalreboot.org.
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