L’economia cinese rallenta e il nuovo premier Li Keqiang deve affrontare le sfide poste dal passaggio da un’economia sostenuta dall’export ad una alimentata dalla domanda interna
Il momento è arrivato anche per l’economia cinese di allacciare le cinture. La discesa sulle montagne russe è iniziata. I dati diffusi a metà luglio che danno un incremento del Pil del 7,5% da un anno all’altro, la prestazione più fiacca dal 1991, e il calo sia della produzione industriale sia degli investimenti in capitale fisso, confermano il rallentamento. Il quadro si completa con la caduta dell’export del 3,1% e dell’import dello 0,7% rispetto al primo semestre 2012, smentita bruciante degli analisti che avevano previsto un incremento del 4% delle esportazioni e addirittura dell’8% delle importazioni.
E mentre gli analisti brancolano, il dibattito è aperto tra chi prevede la catastrofe e chi osserva realisticamente il bicchiere mezzo pieno incrociando le dita.
Nel primo gruppo campeggia il Nobel Paul Krugman con la sentenza che la Cina ha ormai toccato il limite e potrebbe schiantarsi contro la Grande Muraglia perché non ce l’ha fatta, e non ce la farà, a cambiare in corsa il proprio modello di crescita. Il passaggio da un’economia sostenuta dall’export e da investimenti interni massicci (50% del Pil) ad una alimentata dal consumo generato dalla domanda interna sarebbe dovuto avvenire molto prima, perché le condizioni, soprattutto quelle del mercato del lavoro in calo di manodopera contadina e dei salari in aumento, erano mature. Ora che gli investimenti rallentano e i loro rendimenti calano, mentre la crisi ancora divampa in occidente, l’economista Usa si chiede se il passaggio al traino del consumo potrà avvenire con la velocità e la forza necessarie a evitare il crollo. E la risposta, afferma, sembra essere no.
L’altro gruppo è invece ben rappresentato da una certa linea del Financial Times che in un articolo del 23 luglio scorso, “Slower but steady”, a firma Chris Giles, fa osservare che c’è poco da meravigliarsi di quanto sta accadendo, perché sono solo i primi segnali del cambio di rotta preannunciato da tempo dai vertici cinesi. Sono proprio loro che da anni parlano dell’insostenibilità del proprio modello di crescita e del necessario riequilibrio dell’economia già richiamato da Krugman. Finora però ogni rallentamento li aveva spaventati, con il suo carico di decine di milioni di disoccupati, e ogni volta erano intervenuti a dare di nuovo velocità, immettendo a mo’ di stimolo centinaia di miliardi di dollari per nuovi investimenti. Il governo di Li Keqiang, almeno finora, sembra deciso a non farlo. Certo, i rischi non mancano e qualcuno perderà. Tuttavia, osserva Giles, per quanto gli economisti si siano rivelati spettacolarmente in errore negli anni recenti, “quasi tutti concordano che non ci sarà un terzo atto cinese, dopo Usa ed eurozona”. Per evitarlo però bisognerà che la Rpc attui le “importanti riforme necessarie” come raccomandato dall’Fmi.
Ma cosa sta davvero facendo il governo cinese guidato dalla stella nascente Li Keqiang? Gli editoriali dei media ufficiali hanno riassunto la sostanza del nuovo trend in un secco “soffrire nel breve periodo per guadagnare nel lungo”. Anche autorevoli voci ufficiali cinesi, come il ministro delle finanze Lou Jiwei, danno per scontato che i tempi dei tassi di crescita a due cifre sono finiti, ma che il sistema potrebbe reggere anche a un passo del 6,5%. (Ap, China’s economic growth slows more as trade slumps, 15/6/2013). In che modo?
Da quando si è installato al governo, nel marzo scorso, il premier Li ha attirato l’attenzione mondiale guadagnandosi l’onore di un proprio marchio personale, Li-konomics, che ha avuto un immediato successo. Coniato da tre economisti, Huang Yiping, Jian Chang e Joey Chew, in un rapporto per Barclays Capital diffuso il 27 giugno scorso (“What to expect from Likonomics”) identifica sostanzialmente tre capisaldi della politica economica del nuovo premier: 1) nessuno stimolo fiscale o monetario; 2) razionalizzazione forzata dell’operato delle banche, e più in generale di un sistema creditizio complesso che conta un “settore ombra” arrivato ormai a 2,3 mila miliardi di dollari (quasi un terzo del Pil e il 13% del sistema formale). Obiettivo: collocare in modo più efficiente le risorse già esistenti, tagliando i debiti inesigibili; 3) riforme strutturali di vasta portata che comprendono la liberalizzazione dei tassi di interesse e della circolazione dei capitali (prodromo necessario all’integrazione coi mercati finanziari internazionali), aumento dei prezzi dei servizi pubblici (dall’energia ai trasporti), riforma della politica che governa l’uso della terra (questione bollente per la speculazione immobiliare, la migrazione contadina, la preannunciata nuova ondata di urbanizzazione), smantellamento dei monopoli (cioè tutti i settori, strategici, di proprietà statale, dove si intrecciano potentissimi interessi economici e politici) e, dulcis in fundo, la riforma dell’hukou, il sistema di registrazione della residenza, che dovrebbe trasformare i lavoratori migranti in cittadini urbani a parte intera (un’operazione gigantesca, per entità e spesa, dovendo assicurare a centinaia di milioni di persone che ora ne sono prive i diritti alla sanità, alla previdenza, all’istruzione, alla casa).
Tutte linee d’azione, fanno notare alcuni osservatori, che ricalcano il rapporto China 2030, stilato dalla Banca mondiale insieme al Centro di ricerca per lo sviluppo del Consiglio di stato della Repubblica popolare. Un report di quasi 500 pagine, diffuso nel febbraio del 2012, emanazione del governo cinese di cui porta il sigillo, come si evince dal sottotitolo “Costruire una società moderna, armoniosa e creativa”. Una pietra miliare, paragonabile all’ingresso nel Wto, sulla via verso il compiuto arruolamento cinese nei ranghi del libero mercato.
Insieme agli elementi liberisti, saltano agli occhi anche le enormi questioni politiche di un simile cambio di rotta, di portata non inferiore a quello architettato da Deng Xiaoping a partire dal 1978.
I media ufficiali cercano in qualche modo di razionalizzare e “normalizzare” la svolta. Sul China Daily, l’opinionista Ed Zhang l’1 luglio così descriveva quello che sta accadendo: “Una mini crisi controllata, orchestrata dalla mano visibile del governo per evitare una crisi più seria, altrimenti inevitabile se si lascia decidere alla mano invisibile del mercato”. Ma niente paura perché questa “mano visibile opera come regolatore all’interno del mercato, e non contro di esso”. (Ed Zhang, “The way ahead”, China Daily 1/7/2013).
Il terreno su cui costruire un edificio tanto ardito è comunque assai accidentato. Lo dimostrano gli effetti delle misure prese dalla “mano” del governo Li per spingere il sistema nella nuova direzione. A partire dall’improvvisa restrizione del credito decisa a giugno dalla Banca di Cina per fermare il credito a go go. Per l’occasione i tassi overnight sono schizzati dal 2 al 10% e tutto il sistema è andato in fibrillazione. Le banche avevano allargato i cordoni oltre misura sperando che il governo, davanti al rallentamento dell’economia, intervenisse con un ulteriore stimolo. Calcolo sbagliato. Dopo pochi giorni la normalità è tornata ma il messaggio inviato è stato chiaro: l’aria è cambiata, attenti a quel che fate.
Il 20 luglio un’altra decisione ha “liberalizzato” i tassi di prestito. Eliminando il limite inferiore dell’oscillazione consentita rispetto al tasso di riferimento fissato dalla banca centrale (3%) che era fissato al 70% del benchmark, il governo spera che si inneschi un meccanismo di competitività nella concessione dei prestiti. Finora non è cambiato niente, e in molti si chiedono che cosa di questa misura dovrebbe indurre a modificare l’esistente. La dice invece lunga sulle difficoltà del sistema il fatto di aver mantenuto il limite superiore per i tassi che remunerano i depositi (110% del tasso di riferimento). Il fatto che i depositi bancari dei cinesi vengano compensati con una miseria ha alimentato le speculazioni del circuito finanziario soprattutto quello “ombra”, il quale promette, sia pure ad alto rischio, tassi doppi rispetto a quello di riferimento. Ma mettere mano al sistema creditizio è come cercare di disinnescare una bomba piazzata nel cuore dei governi locali cinesi. L’ammontare del loro debito è un mistero, un segreto di stato. Qualcuno azzarda cifre. Secondo Credit Swisse è il 36% del Pil (poco meno di 3000 miliardi di dollari), l’agenzia di rating Fitch ha declassato la sua valutazione sulla Cina ponendo questo ammontare al 25%. Le ultime cifre ufficiali risalgono al 2010, quando si parlava di oltre 10mila miliardi di yuan (poco più di 1600 miliardi di dollari).
Da quando, alla fine del 2012, il governo ha vietato ai governi locali di ottenere prestiti dando come garanzia le terre (per raffreddare la speculazione immobiliare), molti si ritrovano con l’acqua alla gola, impossibilitati a ripagare i debiti accesi, l’entità dei quali sarebbe ormai mediamente il doppio delle entrate fiscali. Di chi il problema? A chi la soluzione?
Intanto, nonostante tutti gli sforzi governativi per bloccarla, la speculazione edilizia continua ad andare a tutta velocità. Secondo statistiche ufficiali, la vendita di terreni per scopi commerciali a Pechino, Shanghai e Guangzhou già nei primi sei mesi dell’anno ha raggiunto l’ammontare di tutte le vendite del 2012. Alle aste i prezzi schizzano alle stelle, nonostante i requisiti posti dai governi per vincere la gara (uno dei più interessanti è la quantità di case a basso prezzo che devono necessariamente essere edificate da chi si aggiudica il lotto, e a Pechino ha vinto chi ha assicurato che metà dei terreni sarebbe stata destinata a quello scopo). (Zhu Yishi “Questions as Developers Spend Big on Land Deals”, Caixin, 23/7/2013). Quanto ancora durerà la follia edilizia è la domanda che aleggia costantemente, tra previsioni di crolli futuri che mai avvengono.
Se questo è il quadro, la nuova leadership più che in un atterraggio difficile appare impegnata in un triplo salto mortale. Comunque, sia che ci riesca sia che si schianti, la Cina sarà tutta un’altra storia.