C’è chi usa la crisi per rafforzare il potere nell’impresa. E chi cerca vie alternative. Ma per condizionare la strategia delle imprese non basta entrare nel board
L’autunno di crisi ha rimesso a nudo i rapporti di potere nelle imprese. I vertici delle imprese chiudono, spostano produzioni all’estero, licenziano: 700 mila posti in meno secondo Emma Marcegaglia. Lavoratori e sindacato difendono occupazione, salari e capacità produttive, chiedono ammortizzatori sociali e riconversioni. Per confondere le cose, il ministro Sacconi propone la partecipazione dei lavoratori ai profitti delle imprese: un paradosso, visto che in Italia la grande maggioranza delle imprese dichiara di non fare profitti, occultati nei bilanci o trasferiti all’estero, con conseguente massiccia evasione fiscale. Come rispondere a chi usa la crisi per rilanciare il potere delle imprese?
La prima risposta viene dal ritorno dello stato che, con nazionalizzazioni, salvataggi e incentivi ha tamponato il primo round della crisi. Miliardi di euro sono andati alla finanza e alle imprese, finora senza nulla in cambio. Si può ridiscutere che cosa produrre per uscire dalla crisi (ancora finanza, auto e armi, oppure un’economia verde?) e ridare un ruolo alla politica – governi, parlamenti, sindacati, società civile – con nuove forme di proprietà pubblica, politica industriale, controllo sociale.
La seconda risposta sta nel ridimensionare la sfera dell’economia e del mercato: acqua, infrastrutture, istruzione, sanità, assistenza sono beni collettivi che vanno tenuti o riportati nella sfera del pubblico per ragioni sia di efficienza che di equità. Fuori dal mercato si stanno sviluppando altri beni comuni – ad esempio la conoscenza – che non si adattano ai modelli di proprietà privata e impresa capitalistica – come dimostrano i casi di wikipedia, degli scambi di musica/filmati in rete (peer to peer) e del software open source. Movimenti e società civile chiedono da anni una politica dei beni comuni che sviluppi queste attività in uno spazio pubblico, con un’attenzione all’efficienza, ma fuori dalle logiche del mercato
Dal macro al micro: la terza sfida è sviluppare forme di produzione di beni e servizi fuori mercato. Commercio equo, finanza etica, agricoltura biologica, produzioni verdi, cooperative sociali, produzioni culturali, editoria alternativa sono solo alcune delle attività in cui si incrociano iniziative della società civile e attività economiche. Al mondo dell’ altraeconomia serve unire capacità di gestione e radicamento sociale, sostenuto da una politica che crei domanda pubblica e spazi di sviluppo. Serve soprattutto evitare di rincorrere il modello delle imprese e ripetere gli errori del movimento cooperativo, appiattito sulle logiche di mercato.
E per le imprese dove comandano i capitali? La quarta risposta è la più difficile: è qui che colpisce l’offensiva in corso. Resistervi, e tutelare il lavoro, è l’esigenza più immediata, e in questa direzione va lo sciopero dei metalmeccanici del 9 ottobre. Servono poi nuovi strumenti per condizionare le strategie delle imprese. Il modello tedesco di partecipazione di rappresentanti dei lavoratori nella direzione delle imprese è stato rilanciato dall’articolo di Enrico Grazzini su questo stesso sito. Politiche industriali, contratti comuni per i lavoratori delle multinazionali nei diversi paesi, vincoli sulle delocalizzazioni all’estero, un ruolo di consultazione del sindacato sembrano strade più incisive e percorribili per difendere il lavoro e orientare le strategie industriali.