L’Unione Europea ha accettato senza fiatare i dazi al 15% sull’export verso gli Usa e le altre imposizioni di Trump. La subalternità agli Stati Uniti la porta ad abbandonare modello economico, strategia ecologica, sovranità politica: diventiamo una lontana periferia dell’impero.
Mar-a-Lago ha ora una succursale europea, il campo da golf Trump’s Turnberry in Scozia. Anche qui il presidente Usa riceve i questuanti e fa conferenze stampa con i comprimari. Domenica c’è stata la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che ha ingoiato con il sorriso sulle labbra l’introduzione di dazi al 15% sull’export della Ue verso gli Stati Uniti. Non ci sarà alcuna contromisura europea. Anzi, la lista delle concessioni europee è infinita: i paesi Ue compreranno energia dagli Usa (tutta fossile, soprattutto gas naturale liquefatto) per 750 miliardi in tre anni, aumentando del 50% gli acquisti annuali (erano di 450 miliardi nel 2024); compreranno materiali per le centrali nucleari; realizzeranno investimenti industriali per 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti – soprattutto nell’auto e nella farmaceutica – per produrre oltreoceano quello che viene ora esportato; compreranno armamenti americani per centinaia di miliardi di dollari, nel quadro degli 800 miliardi di euro dei piani di riarmo europeo. Fatti i conti, tra dazi versati al Tesoro di Washington e altri trasferimenti, la Ue si impegna a pagare a Trump in pochi anni un importo dell’ordine del Pil italiano, 2.400 miliardi di dollari. “Giudico positivamente che si sia trovato un accordo”, ha commentato Giorgia Meloni. Una repubblica delle banane avrebbe ottenuto condizioni migliori dall’imperialismo yankee di un tempo.
La “politica del ceffone” di Trump ha funzionato oltre ogni previsione. Attaccare gli alleati, impedirgli ogni iniziativa, costringerli a esultare perché il 15% è meno del 30% minacciato inizialmente, ha regalato a Trump un trionfo politico. Tutto questo “porterà stabilità” ha dichiarato Ursula von der Leyen. Una stabilità destinata a durare solo fino alla prossima prova di forza americana, che si sta già profilando: sui semiconduttori, sui farmaci, sui privilegi delle piattaforme digitali Usa, oppure sull’impegno a rifinanziare il debito pubblico Usa, o a partecipare alla prossima guerra americana.
Con Bruxelles, Trump ha replicato il successo nel braccio di ferro con il Giappone: anche qui dazi generali al 15% e l’impegno a investire 550 miliardi di dollari in impianti industriali negli Usa. Con gli altri paesi vicini, il calendario di Trump prevede dal 1° agosto dazi al 35% per il Canada e al 30% per il Messico, con sorprese di ogni tipo che potrebbero arrivare in questi giorni. Con dazi al 10%, il Regno Unito della Brexit ha ottenuto un piccolo trattamento preferenziale, riservato all’alleato più fedele, con il Primo ministro Starmer che era ieri a omaggiare Trump sul suo campo da golf scozzese. Chi ha bisogno di governi conservatori con un laburista così?
Con amici e alleati, la strategia di Trump di creare disordine internazionale e “caos sistemico”, per affermare il diritto del più forte e imporre tributi ai paesi satelliti, ha avuto finora pieno successo. La paura di un disordine ancora peggiore intimidisce la periferia dell’impero e rafforza la subalternità che Europa, Giappone, Canada e Messico mostrano verso la Casa Bianca. La caduta del dollaro è parte di questo disordine: dall’arrivo di Trump alla Casa Bianca il dollaro ha perso il 15% nei confronti dell’euro: i prodotti europei stanno già costando di più per gli americani; investire negli Usa appare più attraente per i capitali di tutto il mondo; Wall Street – all’inizio spaventata dall’arrivo dei dazi – da aprile non ha smesso di crescere ed è ora sopra i livelli pre-Trump.
Ma per fortuna il mondo non finisce qui. Il deficit commerciale più grave gli Usa ce l’hanno con la Cina e oggi i due paesi stanno negoziando a Stoccolma. Il 12 agosto scadrà la “tregua” nella guerra commerciale tra i due paesi che aveva fermato al 30% i dazi reciproci, dopo che Trump aveva imposto aumenti fino al 145% e Pechino aveva risposto colpo su colpo. I negoziati vanno molto al di là della bilancia commerciale: l’export cinese comprende componenti essenziali delle catene produttive delle multinazionali Usa – gran parte della produzione degli I-Phone, ad esempio, viene realizzata in Cina – e dazi eccessivi le metterebbero in difficoltà. C’è da tempo uno scontro tra Washington e Pechino sulle tecnologie digitali – rivalità tra grandi piattaforme, corsa all’Intelligenza Artificiale e alle applicazioni militari – con un’altalena di restrizioni e compromessi. Ci sono i 750 miliardi di dollari di debito pubblico Usa che sono nelle mani della Cina. E’ su tutti questi piani che si va disegnando lo scontro tra la declinante egemonia Usa e l’ascesa della Cina e dell’Asia orientale.
In questo quadro, la resa incondizionata dell’Europa a Trump investe il futuro della Ue: i dazi bloccano il modello economico guidato dalle esportazioni tedesche; gli acquisti di energia Usa fanno saltare il Green Deal europeo; le armi americane fanno dell’Europa una guarnigione militare. Senza una politica e senza un progetto, Bruxelles sta diventando un’obbediente periferia di un impero in disfacimento.
Quest’articolo è stato pubblicato sul Manifesto del 29 luglio 2025