Non c’è da stracciarsi le vesti per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, ma c’è da essere preoccupati per il futuro dell’Europa. Sarebbe auspicabile un colpo di coda da parte delle oligarchie dominanti, ma non si vede in circolazione nessuna figura di statura tale da poter rappresentare e guidare un cambio di marcia
Non c’è da stracciarsi le vesti per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, ma c’è da essere preoccupati per il futuro dell’Europa. Sarebbe auspicabile un colpo di coda da parte delle oligarchie dominanti l’Unione, la presa d’atto che la strategia che esse hanno messo in atto per tutelare i propri interessi, a scapito di tutti gli altri, porta al fallimento; tuttavia, non si vede in circolazione nessuna figura di statura tale da poter rappresentare e guidare un cambio di marcia. Si apre una stagione difficile, dove il pessimismo è fondato, ma nella quale si apre anche la possibilità di una crescita dell’Europa in senso democratico.
L’uscita del Regno Unito dalla UE, decisa dal referendum del 23 giugno scorso, è molto grave, ma, di per sé, non mina alle basi un’Unione Europea alla quale il Regno Unito ha partecipato sempre con troppa poca convinzione. Ben diverso sarebbe stato in caso di uscita da parte di uno dei tre maggiori stati fondatori, Italia, Francia e Germania: il colpo sarebbe stato definitivo.
Dal Trattato di Maastricht del 1992, e sempre più negli anni successivi, l’Unione si è caratterizzata in senso antidemocratico, oligarchico e burocratico. Questo ha alienato sempre più i popoli europei dall’idea comunitaria. All’inizio tale sentimento di alienazione è stato tenuto sotto controllo nell’ambito dei partiti tradizionali; quando i sentimenti centrifughi non hanno più potuto essere contenuti entro quell’ombrello, si sono sacrificati gli stessi partiti, cui è stato, di fatto, imposto un compromesso storico, o <große koalition, fondamentalmente finalizzato a mantenere inalterato l’orientamento delle politiche, anche a fronte del ridursi della base elettorale a loro sostegno.
Vi sono stati momenti in cui un’altra politica europea avrebbe potuto prevalere. L’idea di Europa sociale che era riuscita a prevalere a cavallo del secolo, spazzata via negli anni successivi; l’idea e alcuni contenuti del progetto abortito di Costituzione europea (e che pur vede qualche negletto elemento, qual è quello relativo ai diritti civili e sociali, veicolato nei trattati); il fallimento delle politiche economiche ortodosse nella crisi del 2008 2009, che avrebbe potuto e dovuto portare al loro sovvertimento, non al loro ulteriore rafforzamento con gli accordi del Six pack, del Two packe del finale, devastante, Fiscal compact.
In alcune occasioni nelle quali vi sarebbe stata una possibilità concreta di dare una spallata all’ortodossia, gli interessi nazionali di piccolo cabotaggio hanno prevalso: così Hollande, eletto con un programma di radicale critica alle politiche europee, ha poi preferito l’accordo bilaterale con la Merkel, che gli ha permesso di sforare il budget; così l’Italia, che ha mancato di dare sostegno alle posizioni critiche della Grecia salvo, poi, ottenere anch’essa, con una strategia simile alla Francia, alcune limitate deroghe al Patto di stabilità che, se non alterano in alcun modo l’indirizzo delle politiche economiche, avrebbero dovuto permettere almeno di “acquisire” un certo consenso elettorale.
Ora, l’uscita del Regno Unito apre una fase nella quale non potranno più essere sufficienti politiche di così corto respiro. In Francia (si voterà l’anno prossimo) e in Italia la destra populista è pronta nuovamente ad agitare la bandiera dell’antieuropeismo. Già ora, alcuni governi di destra in carica nei paesi dell’Est praticano politiche basate su forme di social-populismo e di chiusura delle frontiere.
Da questa situazione vedo due soli sbocchi possibili.
Il primo prevede che si continui come nulla fosse, sperando che le coalizioni di compromesso storico, con un ulteriore spostamento a destra e convogliando sugli immigrati le tensioni crescenti, riescano ad arginare ancora per qualche anno la destra populista o che questa si divida e sgonfi da sola. E’ un sentiero rischioso, come dimostra l’esempio delle recenti elezioni presidenziali austriache. Esso mette a rischio l’intera costruzione europea, potrebbe facilmente portare alla disintegrazione dell’Unione e, fra qualche decennio, alla riscoperta nell’Europa continentale di quelle tensioni e contrapposizioni di cui abbiamo avuto esperienza in due guerre mondiali, che sbaglieremmo a considerare definitivamente sepolte dalla storia.
Un secondo possibile sbocco comporterebbe una ridefinizione in senso democratico dello spazio e del governo europeo che, a questo punto, non potrebbe che essere ancora più avanzata di quella finora immaginata. Essa dovrebbe necessariamente portare ad un governo europeo effettivamente espressione dei popoli e non del solo ramo esecutivo. In tale contesto potrebbe anche saltare l’euro, forse ormai irriformabile, e con esso il Patto di stabilità, ma non salterebbe Shengen, che sarebbe piuttosto riformato per superarne i limiti; salterebbe il trattato commerciale in corso di definizione con gli USA, il TTIP, con la perdita di sovranità nazionale che esso prevede a favore delle imprese multinazionali, mentre verrebbe riaffermato il valore costituzionale della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dando loro piena esigibilità; si ridefinirebbe il programma di austerità che uccide la Grecia, rinunciando alla tutela delle sole banche internazionali a scapito dell’economia e della popolazione di quel paese.
Sarebbe un modo per riavvicinare l’Europa ai cittadini, rinunciando all’esercizio di poteri sovranazionali che sono stati finora appannaggio di “poteri forti”, che li hanno esercitati in forme illiberali e incuranti dell’interesse pubblico. Si vedrà nei prossimi mesi quali direzioni vorranno prendere le classi dominanti l’Europa. La storia del secolo scorso presenta parecchi esempi nei quali esse hanno scelto la soluzione nazionalistica e autoritaria all’allargamento in senso progressista della base democratica e questo ha regolarmente portato al disastro.
C’è dunque da essere preoccupati. Ma, non ci fosse stato il voto per l’uscita del Regno Unito, ci saremmo trovati nelle stesse condizioni un domani, con un referendum in qualche altro paese, magari ancora più destabilizzante per la costruzione europea. Ora, ancora vi sono spazi, per quanto ristretti, per il perseguimento di una soluzione “alta” e la speranza che i ceti popolari e quella “borghesia illuminata” di cui l’Europa dovrebbe essere ricca raccolgano la sfida di una scelta di campo genuinamente europea.