Se sono gli indici di borsa a misurare la nostra felicità, non ci possiamo sorprendere se i beni comuni fanno una brutta fine. I mercati finanziari non permettono di perdere tempo con la cultura: per esempio con un antico teatro.
La manovra finanziaria è stata approvata in tutta fretta per cercare di rassicurare e ridare fiducia ai mercati finanziari. “Ridare fiducia ai mercati”. Come se non fosse la finanza a doversi riconquistare la fiducia delle persone dopo i disastri combinati negli ultimi anni, ma al contrario i cittadini a sopportare in silenzio tagli e sacrifici per ottenere la clemenza di Sua maestà la finanza.
Fermiamoci un momento. I cittadini hanno già pagato a caro prezzo una crisi nata dall’avidità di una finanza-casinò che ha l’unico obiettivo di fare soldi dai soldi nel più breve tempo possibile. Questa stessa finanza-casinò impone i tempi e i contenuti alla politica. Oggi le persone devono accettare una manovra “lacrime e sangue” e continuare a tirare la cinghia.
E questo non è ancora nulla. Dopo l’approvazione della manovra, tutti con il fiato sospeso in attesa dell’apertura dei mercati del lunedì mattina. Il lunedì la borsa apre in calo, e si moltiplicano le voci delle cassandre che affermano che non è stato fatto abbastanza, che occorrevano maggiori sacrifici, misure più drastiche. Martedì ecco il rimbalzo, la borsa risale, si può tirare un sospiro di sollievo, la manovra del governo funziona perché i mercati sono risaliti.
Questo “perché” racchiude l’inconcepibile potere del sistema finanziario sulla vita delle persone. La validità delle decisioni prese dal governo non si misura con un aumento del benessere, un calo della disoccupazione o la qualità dei servizi sociali, ma con lo spread tra i titoli di stato italiani e i bund tedeschi.
Da tempo diversi ricercatori sottolineano l’inadeguatezza del Pil come indicatore dello stato di salute di un paese. Il benessere non si può misurare in termini di crescita economica. È noto il paradosso “dell’eroe del Pil”: un malato terminale con una costosa causa di divorzio che fa un incidente in macchina. Tutte cose che fanno girare l’economia e aumentano il Pil. Oggi questo indicatore sembra finalmente superato, ma in una direzione opposta e impensabile fino a pochi anni fa. Oggi sono gli indici di borsa a misurare la nostra felicità.
In questo quadro sociale e culturale ancora prima che economico, non può sorprendere l’ulteriore smantellamento dei beni comuni e la loro privatizzazione. La crisi finanziaria è un alibi eccellente per accelerare il processo. Non ci sono le risorse, i beni comuni, il welfare, lo stato sociale diventano un lusso che non possiamo permetterci. I mercati finanziari non ce lo permettono. “Con la cultura non si mangia” è l’emblematica affermazione del nostro ministro dell’Economia.
Ed è proprio partendo dallo smantellamento della cultura che nel 2010 è stato soppresso l’Eti, l’Ente teatrale italiano, il che a catena avrebbe dovuto portare, tra le altre cose, ad affidare a privati la gestione del teatro Valle di Roma, il più antico della città ancora in attività.
Avrebbe dovuto. Perché da oltre un mese il teatro è stato occupato dalle lavoratrici e dai lavoratori dello spettacolo. Un’occupazione che rivendica la cultura come bene comune, ovvero per superare la dicotomia pubblico/privato: non un controllo pubblico inteso come gestione clientelare, soprattutto non una privatizzazione e mercificazione della cultura.
L’occupazione è iniziata il 14 giugno. Il giorno dopo la vittoria nei referendum contro la privatizzazione dell’acqua, raccogliendo idealmente il testimone di una straordinaria mobilitazione il cui significato va be al di là della pur fondamentale questione della gestione delle risorse idriche. Il referendum ha dimostrato la volontà dei cittadini italiani di superare un trentennio di politiche neoliberiste, per riappropriarsi dei beni comuni e di una loro gestione democratica e partecipata.
Come per l’acqua, è in quest’ottica che l’occupazione del Valle ha un significato che va oltre l’attacco alla cultura. Le stesse parole e gli stessi concetti potrebbero essere applicati ad altri beni comuni, dal diritto all’istruzione fino alla ricerca, finiti nel tritacarne del neoliberismo e della finanziarizzazione.
La politica si è mostrata incapace di rispondere ai bisogni e alle richieste che stanno emergendo. L’indignazione contro la “casta” non serve. È dal basso che dobbiamo ricostruire un diverso modello sociale. È questo il filo conduttore che unisce il risultato del referendum, la resistenza in Val Susa, l’occupazione del Valle. La creazione di un nuovo modello fondato sulla partecipazione dei cittadini per la gestione e la tutela dei beni comuni. Partendo dal locale per un cambiamento globale, come recitava uno slogan di alcuni anni fa.
È quello che da più di un mese si sta facendo al teatro Valle, tra assemblee, spettacoli, testimonianze e dibattiti. Non ci sono modelli da copiare, occorre sperimentare giorno dopo giorno per rompere con il passato e realizzare il cambiamento. È un percorso faticoso e difficile, ma è l’unico da seguire, raccogliendo l’esempio degli occupanti del Valle e lo slogan che campeggia nella magnifica sala del teatro: com’è triste la prudenza.