La sicurezza e l’accoglienza: due approcci – o visioni – dell’immigrazione dietro una lite all’Esquilino tra un noto giornalista televisivo e un attivista di Spin Time, il centro sociale aiutato dal Tesoriere di Papa Francesco. Dietro l’episodio, da baruffe chiozzotte, un’orizzonte di umanità e diseguaglianze e tanta miopia.
Parlerò di me, una volta tanto. Sabato scorso, mattina, lavoravo “a studio”, (come dicono a Roma) e sono sceso a bere un caffè in un vicino bar tenuto da “Bangla” (sempre come dicono a Roma). Nella piazza circostante, detta Pepe, era in corso, a mia insaputa, una riunione di esquilinesi, gli abitanti e le abitanti del quartiere. Erano rappresentate un bel po’ di associazioni locali, nate per migliorare il benessere generale, sotto forma di attività comuni, sociali, sportive, culturali. Una parte delle persone presenti era però di opinione contraria: “all’Esquilino i veri problemi sono quelli della sicurezza, per dirla in una parola sola: furti, aggressioni, spaccio, prostituzione, ogni giorno e soprattutto ogni notte, al buio. Noi abitanti non siamo sicuri e non siamo sicure. Occorrono cancelli e chiavistelli, per proteggere persone deboli e proprietà. E che dire poi del mercatino dei pezzenti di Via principe Amedeo, di fronte al gran mercato alimentare”?
Parlerò di nuovo di me. Mi capita di attraversare il “mercatino del “tutto giù per terra” tre/quattro volte al giorno nel percorso da casa a studio.
Le merci sono sistemate su coperte e asciugamani, pronte a essere fatte sparire, infilate In borsoni, al segnale di pericolo. Il pericolo è costituito da uno di tre o quattro gruppetti di difensori dell’ordine, vigili, poliziotti, carabinieri, tutti armati di pistole e manette. Le forze d’intervento si alternano, con disciplina e modi urbani, lasciando ogni tanto spazio alla quarta forza, la Guardia di finanza, che eventualmente sanziona le vendite senza Iva, di vecchie scarpe, magliette usate o cianfrusaglie varie. L’impressione è che le soldate e i soldati che controllano Via Principe Amedeo lo facciano nella convinzione di evitare guai, abusi, prepotenze, imbrogli con la loro semplice presenza.
Tornando a Piazza Pepe, sabato mattina, ecco un teatrino romanesco gratuito. Protagonisti un assertore del partito dei cancelli, un famoso e simpatico personaggio televisivo, abitante proprio in piazza Pepe e il portavoce di Spin time un noto palazzo occupato, proprio all’Esquilino. (1) Ne è sorto un diverbio che la grande stampa non ha trascurato: “Cancellate in piazza Pepe / la lite tra Telese e Tarzan finisce a spallate. Poi la pace” (la Repubblica, 3 febbraio 2025). Replica il Corriere, il giorno dopo: “Non ho preso pugni in faccia, ma i pusher in piazza sono un fatto” (Corriere della Sera, 4 febbraio 2024) che poi aggiunge un’altra riga: “Luca Telese dopo la lite con l’antagonista: ‘Lo conosco da anni’”.
In effetti entrambi gli antagonisti rappresentano opzioni diverse: qui sicurezza, là accoglienza. Una piccola sceneggiata romanesca forse utile per far riflettere: ancora una volta si ripropone uno dei problemi forti della nostra epoca. Che fare con i migranti, come insegnare loro a vivere e a trovarsi un lavoro in una grande città, nuova per loro, senza fare chiasso, senza sporcare, senza sdraiarsi sulle panchine; e questo in un quartiere ospitale e disponibile, ma non sempre, non tutti i giorni, non per tutti. Quanto allo spaccio e alla prostituzione, in città, in ogni città, c’erano anche prima e non saranno i cancelli dell’Esquilino a farli sparire.
Le baruffe romanotte non fanno che riproporre bene e in modo esemplare un problema irresolubile che consiste nelle divisioni tra le persone (e anche tra noi democratici) in tema di migrazioni. Si riproduce qui il ben noto principio del NIMB (not in my backyard cioè non nel mio cortile) con cui nei decenni scorsi le comunità si difendevano da autostrade, piste aeree e ferrovie, volute dalle amministrazioni pubbliche. Sì a vie ferrate e autostrade e perfino a migrazioni, necessarie per l’economia; ma, per favore, dev’essere chiaro a tutti, non qui, non sotto le mie finestre. All’Esquilino ci sono sempre badanti ucraine, benvolute, lavoratori edili rumeni, tollerati, trattorie cinesi un tempo assai frequentate, ora trasformatesi in comodi bar, o nei cosiddetti cinesi (bazar plurimerce). A prima vista, guardando da lontano, con un teleobiettivo, sembra che tutto sia più o meno regolare, come al solito, e non emozionante. Guardando invece con una specie di grandangolo (o forse di telescopio) si vedrebbe un mondo assai più ampio, fatto di tanta gente in movimento, affamata, curiosa di tutto, povera, impaurita.
Una prima considerazione, se ci è consentito usare il grandangolo, è che la gente è nel mondo molto aumentata: la ‘ricchezza’ naturale è quella di prima, ma a dividerla siamo in molti di più. Nel 1900 c’erano al mondo, secondo le Nazioni Unite 1,65 miliardi di persone;(2) nel duemila i miliardi di presenze erano diventati sei; nel 2014, otto abbondanti, dunque con un aumento di due miliardi in tre lustri scarsi. Si prevede un rallentamento nella crescita nei prossimi decenni, con popolazione di 10,3 miliardi nel 2080 e poi un possibile calo: 10,2 miliardi a fine secolo.
Insomma, la popolazione mondiale crescerebbe di quattro miliardi nel corso del secolo corrente (pari a tre quarti del totale). La ‘ricchezza’, intesa come territorio, acqua, aria pulita, insomma la natura è sempre la stessa, ma a partecipare nella divisione siamo molti di più, e mediamente più deboli, poiché saremo con più vecchi da sfamare e più piccolini (sopravvissuti) da svezzare. Gli uni non lavorano più; gli altri non sanno ancora fare. Se questo è l’ordine di grandezza previsto (preordinato, pronosticato, temuto: scegliete voi) dalle Nazioni Unite, il movimento migratorio sarà enorme, è inevitabile. In realtà, dire che la natura è sempre la stessa, è esagerare per ottimismo. Tra costruzioni, strade, ponti, macchinari, impianti di vario genere e per esempio dighe un po’ dappertutto, abbiamo ingoiato un bel po’ di natura. D’altro canto, se le popolazioni aumentano di tre quarti in meno di cento anni, non è difficile capire che i bisogni generali – cibo, strade, cure mediche, abitazioni, città, e poi traffici, viaggi, spostamenti – a parità di altre condizioni, non possono che aumentare.
La guerra, la fame, la paura, l’oppressione, la povertà, la ricerca di un lavoro decente saranno la conseguenza obbligata a “fare qualcosa”, un qualsiasi tentativo per venirne a capo. Di fatto i guai costringeranno una parte della popolazione di ogni continente, di ogni plaga ad andarsene, abbandonando tutto il passato – memorie, credenze, usi – bagaglio inutile per sopravvivere, anzi pesante e penoso. Per sopravvivere e consentire a sé di tirare avanti, con il carico dei vecchietti e degli infanti di prima, e ai figli di crescere, di fare qualcosa, lavorare, mettere su famiglia, mantenersi. C’è poi dell’altro: c’è chi parte per provare, imparare, capire il vasto mondo, scegliere, mostrare quel che si sa fare.
I numeri sono meravigliosi. “Siamo tutti figli e nipoti di migranti. Abbiamo cominciato a migrare trenta o quarantamila anni fa, quando i nostri bisavoli Homo Sapiens sono usciti per la prima volta dall’Africa, espandendosi lentamente verso il Medio Oriente, l’Asia e l’Europa, in territori poco popolati da altre specie di Homo, che abbiamo respinto o con cui ci siamo mescolati. Sì, veniamo tutti dal Corno d’Africa, la terra da cui oggi cercano di arrivare tanti nostri cugini somali ed eritrei”. Così diceva un po’ di anni fa Piero Basso, un generoso maestro. (3)
Poche frasi dopo Piero aggiungeva una frase di Seneca: “Nella storia antica molti popoli lasciarono la propria patria e cambiarono dimora. Tra questi troviamo molte colonie greche che oggi sono in Asia…I Tiri oggi abitano l’Africa, i Punici la Spagna e I Greci si insediarono anche in Gallia. Le tempeste e le onde fecero affondare molti inesperti che si dirigevano verso luoghi ignoti. Vari furono i motivi per i quali gli abitanti si allontanarono dalle proprie terre: la rovina della patria mosse alcuni, le guerre civili altri, un’epidemia scacciò altri, la fama di una terra feconda attirò altri ancora”.
Uomini e donne al lavoro nel 2025 nel mondo sono 3,6 miliardi secondo l’Ilo; erano 2,23 miliardi nel 1991; si è dunque realizzata una crescita di 1,4 miliardi, in poco più di trent’anni, nonostante la caduta delle attività negli anni susseguenti al biennio 2019-20, il biennio del Covid, della Pandemia. Sono calcolati con maggiori difficoltà e quindi assumendo i rischi di qualche imprecisione anche i lavori informali. Per l’Ilo rientra nell’economia informale quasi l’86 percento della forza lavoro in Africa, per scendere al 40 per cento nelle Americhe e al 25 per cento in Europa, laddove sono presenti talvolta sindacati e contratti di lavoro sanciti dalle leggi. Le definizioni dell’Istituto del Lavoro che si susseguono da un anno all’altro sono interessanti ma non troppo rigorose. Informale è “ogni attività economica, escluse le illecite, per lavoratori e unità economiche che per legge in pratica non coperta o coperta insufficientemente da accordi formali come la legislazione nazionale sul lavoro, l’imposta sul reddito e la protezione sociale”.
Non solo in Africa o in altri luoghi remoti, anche in Italia, anche a Roma, anche nel misteriosissimo Esquilino il lavoro informale, se non vogliamo prenderci in giro, è presente e ci consente di sopravvivere: sia ai migranti, sia ai locali. I migranti sono appunto venuti con lo scopo di guadagnare un po’. Se non altro, sanno darsi da fare, per i cosiddetti lavoretti: sono giovani, i più e disponibili, si adattano. Tutti i lavori, paragonabili a quelli alla persona che sono soprattutto compito delle immigrate, sono attività – lavori – che sanno fare senza vergogna. Sanno per esempio riparare un vestito, cucire un orlo, aggiustare un filo elettrico, una presa, incollare, con il famoso silicone, qualsiasi cosa. Sanno verniciare e sverniciare, al contrario dei locali, noi, che non sappiamo spesso come fare per riparare un oggetto d’uso, (un ferro da stiro, tanto per fare un esempio) e sappiamo soltanto comprarne un altro, più complicato ancora. Il lavoro dei nuovi arrivati è per lo più informale e questo significa che lo si paga al vivo, al costo, all’ora, alla mano – ditela come la volete – senza extracosti, per chi lavora e per chi paga. E questo è tutto (o quasi).
NOTE
- L’11 maggio 2019 l’elemosiniere della Santa Sede, cardinale Konrad Krajewski si è calato sotto l’edificio occupato di Spin Time per riattivare luce e corrente elettrica sigillate qualche giorno prima dall’Irati
- ILO 2025 – “Advancing social justice, promoting decent work”
- Focus sulle migrazioni, GUE/NGL Milano, 20 ottobre 2015