L’intelligence americana sa che l’Iran è lontano anni dalla bomba atomica. L’obiettivo strategico di Israele – e degli Usa – è il caos in Medio Oriente, perché lo stato ebraico resti la sola superpotenza regionale. I risultati si possono presumere dai precedenti in Iraq, Afghanistan, Libia e Siria.
Sulla guerra Iran-Israele (e Stati Uniti) cominciano a circolare le notizie più disparate, ma forse anche fondate, tra queste – come sostengono settori dell’intelligence americana – che l’Iran è lontano anni da una bomba nucleare. Ma ci sono anche mitologie ricorrenti come quella del cambio di regime come vorrebbe il premier israeliano Netanyahu. Il quale per altro non è chiaro se abbia i mezzi per farlo.
Appare complicato rovesciare un regime solo con attacchi aerei, diciamo che Israele può scatenare il caos in un Paese che è cinque volte l’Italia con 90 milioni di abitanti, confina con altri sette Paesi tra cui un membro Nato (Turchia), un altro a enorme instabilità (Afghanistan). Si affaccia su Caspio e Golfo, dispone delle seconde riserve al mondo di gas e le quarte di petrolio. Un bel boccone, forse un po’ troppo per il governo estremista e messianico di Israele. Come sostiene e scrive da tempo Alastair Crooke, diplomatico e agente dell’MI-6 britannico, il vero e forse unico obiettivo strategico di Usa e Israele è quello di portare il caos in Medio Oriente in modo che lo Stato ebraico rimanga l’incontrastata superpotenza regionale.
I precedenti sono chiari. Negli ultimi trent’anni i cambi di regime imposti dall’esterno hanno prodotto disastri clamorosi. Basti pensare all’Afghanistan nel 2001 con la fuga da Kabul venti anni dopo e il ritorno dei talebani; all’Iraq nel 2003 sprofondato nella guerra civile e nel jihadismo; alla Libia di Gheddafi nel 2011, fuori controllo e sempre divisa. Per contrasto in Siria, a dicembre, sono state le forze locali a far cadere Bashar Assad, per quanto sostenute dall’estero.
Possiamo detestare quanto vogliamo il regime degli ayatollah ma pensare, come scrive Pierre Haski su Internazionale, che la caduta di quello di Teheran possa creare progresso e libertà significa essere ingenui e confondere i desideri con la realtà. Un crollo del regime sotto i colpi dell’esercito israeliano non farebbe altro che alimentare un caos da cui potrebbero emergere forze oppressive e antidemocratiche.
Ma gli occidentali ancora un volta sono pronti ad accettare la narrativa di un premier israeliano che scatena guerre per tenersi in sella e distrarre i media da Gaza dove l’esercito di Tel Aviv continua uccidere centinaia di palestinesi. Ieri al G7 il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha detto: «Israele sta facendo il lavoro sporco per tutti noi in Iran». Come a Gaza, verrebbe da aggiungere.
Tutto questo non può indurci a ignorare i fattori interni di destabilizzazione dell’Iran e il sempre maggiore scollamento tra il regime e la popolazione, testimoniato dalle manifestazioni di piazza cominciate in maniera diffusa con il movimento “Donne, vita, libertà” nato nel 2022 dopo la morte della giovane Mahsa Amini, avvenuta mentre si trovava nelle mani della polizia per non aver indossato il velo nella maniera corretta.
E proprio nel tentativo di riprendere almeno una parte del consenso che il regime, dopo la misteriosa morte del presidente Raisi in un incidente di elicottero, ha fatto eleggere l’anno scorso il riformista Pezeshkian al posto di un fondamentalista ultra-conservatore. Ma anche questo non è bastato a riconciliare popolazione e regime. Ancora un volta si è registrato un calo della partecipazione con circa il 40% dei votanti: la legittimità della Repubblica islamica fondata nel 1979 con la rivoluzione di Khomeini è in discussione per le pesanti disillusioni sul sistema.
Proprio per questo il regime aveva serrato i ranghi. Trovare un successore dell’attuale Guida Suprema Khamenei era già apparsa, prima di questa guerra, una questione di vitale importanza per la sopravvivenza della Repubblica islamica. Per questo l’ala religiosa del potere si poteva appoggiare soltanto sugli onnipresenti Pasdaran, le Guardie della rivoluzione, da anni impegnati sui fronti di guerra, dall’Iraq alla Siria, dal Libano allo Yemen. Nati dal movimento di massa della rivoluzione del ’79 e dalla necessita di sostenere l’attacco del 1980 portato dall’Iraq di Saddam Hussein, sono diventati negli ultimi decenni i veri padroni del Paese e controllano oltre all’apparato militare anche le leve economiche. Ma non basta la loro potenza a tenere in piedi la Repubblica islamica e soprattutto a garantirne la legittimità popolare.
L’alone dell’utopia rivoluzionaria con cui il turbante dei mullah si era sostituito alla corona imperiale è svanito da un pezzo. Il sistema – così almeno avrebbe voluto Khomeini – doveva andare a beneficio dei mostazafin, letteralmente i senza scarpe, i diseredati e gli oppressi, in nome dei quali era stata fatta la rivoluzione. In realtà religiosi, ex rivoluzionari, Pasdaran e uomini d’affari, si sono impadroniti del business e dell’economia di un Paese con enormi riserve di gas e petrolio.
Non solo i poveri, oggi, sono sempre più poveri ma anche la classe media è in crisi. E poi ci sono le incognite sulla generazione X iraniana che abbiamo visto scendere in piazza, giovani che non hanno partecipato ovviamente né alla rivoluzione khomeinista del ‘79 né alla guerra Iran-Iraq (1980-1988). Gli iraniani sono più di 90 milioni, di questi oltre 40 milioni sono nati dopo la rivoluzione e la metà (fonte Undp) sono tra i 10 e i 24 anni. Eppure finora il sistema statuale ha retto perché elargisce la metà degli stipendi mentre il welfare iraniano, che insieme ai prezzi sussidiati valeva la metà del Pil, nonostante i tagli, è ancora in piedi. C’è un Iran che teme il regime ma forse teme ancora di più l’anarchia e il caos che ha investito il confinante Iraq. Mai trarre facili conclusioni sull’Iran, erede di un impero, di una cultura antica e di una delle grandi rivoluzioni della storia.
Articolo pubblicato da il manifesto del 18 giugno 2025