La rotta d’Italia. Le distanze tra l’Italia e gli altri paesi avanzati si stanno allargando: in termini di Pil per abitante siamo ritornati ai livelli relativi degli anni ’70. Le cause? La caduta della produttività e il tasso di occupazione
Quali sono le cause reali dell’attuale crisi italiana? Per cercare una risposta è cruciale riferirsi alla dimensione reale dell’economia e alle forze dello sviluppo che determinano la dimensione del prodotto aggregato e dei redditi. Tracciamo, perciò, una sintetica storia dell’economia italiana a partire dagli anni Sessanta. Da quegli anni e fino ad oggi il ritmo di crescita del Pil italiano è enormemente diminuito. Mezzo secolo fa il tasso medio di crescita del Pil reale era pari a circa il 7%, cioè più di sei volte quello attuale. Ovviamente, questa lunga frenata ha coinvolto il ritmo di crescita del reddito pro capite, ossia il rapporto tra Pil e popolazione. Dai dati Eurostat (2012) emerge che in Italia il tasso di crescita del reddito pro capite è diminuito in media nell’ultimo ventennio con un notevole deterioramento dal 2004, rispetto ai due decenni precedenti ove avanzava ancora, seppure ad un ritmo contenuto, dell’1.2% l’anno.
Figura 1. Pil pro capite a confronto: Italia, EU a 15 e Usa (=100). Fonte: elaborazioni su dati Ameco2012
Per rendersi conto della drammaticità di questa trasformazione confrontiamo la dinamica del Pil pro capite italiano con quella di altri paesi. La figura 1 pone a confronto il reddito pro capite italiano con quello statunitense (linea tratteggiata) ed europeo (EU a 15, linea continua). E’ evidente il processo di convergenza degli anni 60-70 e poi di divergenza a partire dagli inizi degli anni Novanta. Dagli anni Settanta fino agli anni Ottanta la distanza in termini di reddito pro capite italiano rispetto agli Stati Uniti e ai paesi europei si è progressivamente ridotta. Se negli anni Settanta il reddito di un italiano era il 66% di quello di un americano, negli anni Novanta aveva raggiunto quasi l’80%, recuperando così nel corso di un ventennio circa 14 punti del divario iniziale. Il problema, come mostra ancora la figura, nasce negli anni successivi: in venti anni il divario colmato si riforma riportandoci all’inizio degli anni Settanta.
È da sottolineare che il nostro reddito pro capite ha seguito più o meno lo stesso percorso nei confronti di quello dei paesi che hanno adottato l’euro. L’economia italiana però ha rallentato di più, con la conseguenza che il divario rispetto agli altri paesi è andato crescendo nel tempo.
Ma a cosa possiamo far risalire questo drammatica trasformazione? Le differenze di reddito pro capite tra paesi possono derivare da vari elementi. Una scomposizione utile al riguardo consiste nel separare le componenti di produttività del lavoro da quelle occupazionali. Più precisamente, possiamo distinguere le tre componenti
Questa scomposizione del reddito pro capite, riprodotta per diversi paesi nella tabella 1, ci aiuta a comprendere quali fattori promuovono o rallentano la crescita economica. Il Pil pro capite dipende dalla produttività oraria , dalle ore lavorate per occupato , e dal tasso di partecipazione calcolato rispetto alla popolazione di riferimento (in questo caso quella totale). Le differenze nel Pil pro capite di diversi paesi possono dipendere perciò da uno o più di questi fattori. Nella tabella 1, che riporta i dati medi dal 2005 al 2011, sono rappresentati gli andamenti del Pil procapite dei principali paesi dell’euro zona relativamente agli Usa. I numeri che compaiono nella prima colonna rappresentano il valore medio del Pil pro capite riferito al periodo 2005-2011 relativamente agli Usa. Nelle altre tre colonne sono riportati i dati relativi agli elementi che causano il divario con gli Usa. Vediamo in dettaglio.
Tabella 1. Il prodotto pro capite e le sue componenti. Anni 2005-2011. Fonte: elaborazioni su dati OCSE.
(Usa=100) |
Pil pro capite |
Produttività Oraria |
Ore lavorate per lavoratore |
Tasso di partecipazione |
Italia |
66 |
-25 |
5 |
-14 |
Francia |
72 |
-3 |
-15 |
-10 |
Germania |
74 |
-6 |
-20 |
0 |
Tra il 2005 ed il 2011 il Pil procapite medio italiana è pari al 66% di quello statunitense, e abbondantemente al di sotto di quello di Francia e Germania. Tuttavia, l’Italia è il paese dove più elevato è il contributo che discende dalle ore lavorate in media da ogni lavoratore (+5 rispetto a Usa). Il contributo di questa componente è positivo per l’Italia, mentre il medesimo contributo è negativo per la Francia (-15) e la Germania (-20). In altre parole, in Italia gli occupati lavorano in media di più di quanto si lavora negli altri paesi oggetto di questa analisi. Per l’Italia il divario del Pil pro capite con gli Stati Uniti, la Francia e la Germania è spiegato in gran parte dalla minore tasso di partecipazione (-14) e particolarmente dalla bassa produttività del lavoro (-25). Quindi, in Italia la bassa produttività ed il ridotto tasso di partecipazione contribuiscono negativamente alla formazione del Pil pro capite.
Questi dati ci consegnano una prima conclusione. Non è corretto sostenere che in Italia ogni occupato lavora relativamente poco. Anzi i dati illustrano il fenomeno opposto. Non è corretto dire che il basso livello del Pil pro capite italiano dipende esclusivamente dai bassi tassi di partecipazione. Inoltre, è inesatto affermare che una maggiore partecipazione determinerebbe automaticamente l’aumento del Pil pro capite. La scarsa partecipazione del lavoro è, ovviamente, un problema dirimente per lo sviluppo del paese sia per la sua componente economica che per i costi sociali legati alla disoccupazione. Tuttavia, quando la crescita dell’occupazione prende avvio da un basso livello preesistente di produttività vi è il rischio concreto che la nuova occupazione agisca come fattore depressivo della stessa produttività piuttosto che come volano di sviluppo. Ne consegue che, nel medio periodo, con tecnologia data, il rallentamento della produttività può causare l’espulsione dei nuovi occupati dal mercato del lavoro e una contrazione salariale a seguito della minore produttività.
Va infine osservato che, come mostrano i dati della tabella, lo stesso livello di Pil pro capite può derivare da combinazioni diverse di produttività e lavoro. Questo aspetto non è irrilevante. I guadagni ottenuti attraverso incrementi della produttività tendono infatti a essere più stabili che non quelli ottenuti solamente attraverso la crescita dell’occupazione. L’occupazione può crescere velocemente durante la fase di espansione del ciclo, ma altrettanto rapidamente si riduce durante le recessioni. Questo fenomeno si è registrato in Italia tra il 1992 e oggi. In effetti, le numerose riforme del mercato del lavoro varate per accrescere la flessibilità del rapporto lavorativo, e la contestuale politica di moderazione salariale, hanno spinto le imprese, dalla metà degli anni Novanta al 2008, ad accrescere il numero di occupati, ma senza impegni a favore degli investimenti e del rinnovamento tecnologico. All’esplosione della crisi internazionale, il risultato inevitabile è stato l’espulsione dei nuovi occupati e la risalita della disoccupazione, in un contesto di produttività decrescente. Questo fatto ci riconduce al punto precedente. La produttività del lavoro è il nodo della crisi italiana, e i guadagni derivanti dalla flessibilità sono di gran lunga inferiori, e transitori, a quelli auspicati, data la tecnica e il capitale oggi impiegati nella produzione. Perciò, la riduzione del costo del lavoro invece di stimolare le imprese a intraprendere nuovi investimenti reali può avere l’effetto doppiamente negativo di mantenere nel mercato le imprese meno efficienti e di contrarre ulteriormente gli investimenti, e la domanda, fino ad un livello di produzione stabile con elevata disoccupazione.
Nel file pdf allegato è disponibile lo studio, pubblicato su Quaderni di Rassegna Sindacale, che porta ai risultati riassunti in quest’articolo.