Un libro dell’Etui rilancia la riflessione e le proposte per uscire dalla crisi cambiando modello d’impresa. Capace di generare valore non solo per gli azionisti ma per gli stakeholder e la società nel suo complesso. Diventa quindi indispensabile che i lavoratori possano incidere sulle strategie e sulla gestione delle aziende
Generalmente gli economisti trattano di economia fermandosi alle porte dell’impresa. Lo European Trade Union Institution, ETUI (già ben conosciuto dal pubblico di Sbilanciamoci) ha invece varcato quella soglia decisiva: recentemente ha pubblicato The Sustainable Company; a New Approach to Corporate Governance , a cura di Sigurt Vitols e Norbert Kluge. Questo nuovo libro è centrato sulla necessità di democratizzare la corporate governance perché le imprese possano diventare attori di un’economia sostenibile, equa e innovativa.
Il primo assunto di questo saggio è che la drammatica crisi del mercato finanziario è indissolubilmente legata al modello anglosassone di corporate governance, e viceversa; e che quindi non è possibile uscire dalla crisi attuale senza cambiare anche il modello anglosassone attualmente dominante di governo dell’impresa. Le proposte di riforma del sistema finanziario ed economico diventano astratte se non si legano strettamente al cambiamento dei rapporti di potere anche all’interno delle imprese, e se la democrazia non irrompe nelle aziende grazie all’introduzione del potere decisionale dei lavoratori e degli altri stakeholder (portatori di interesse) negli organi societari direttivi per controbilanciare il potere della finanza speculativa che in generale è ormai diventata il vero proprietario delle grandi imprese.
Vitols denuncia che negli ultimi decenni anche in Europa si è imposto il modello anglosassone gerarchico (e autoritario) del shareholder value che pone al centro dell’impresa l’interesse esclusivo degli azionisti. Secondo questa concezione, il valore azionario di una società rifletterebbe la misura del suo valore fondamentale dal momento che i prezzi delle azioni sul mercato finanziario riflettono tutte le informazioni disponibili al momento per gli investitori. Quindi l’obiettivo di una gestione ottimale di un’impresa deve puntare a massimizzare esclusivamente il suo valore azionario. Questa teoria dello shareholder value, espressa compiutamente dalla scuola di Chicago, ha avuto un enorme successo anche in Europa perché si è inserita in un contesto favorevole dominato da precisi interessi: le banche hanno incominciato a intravvedere la possibilità di fare enormi profitti sul mercato finanziario (al di fuori delle tradizionali attività creditizie) e i governi si sono orientati a programmi di privatizzazioni per coprire i deficit pubblici.
La teoria e la pratica del shareholder value richiedono peraltro alcuni pilastri che la sostengono:
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Un mercato competitivo dei capitali, in modo che il mercato rifletta davvero il prezzo “reale” delle aziende, almeno nel medio e lungo termine. Da qui la necessità di un mercato molto liquido per la compravendita veloce delle azioni, ecc.
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L’allineamento tra l’interesse degli azionisti e quello dei manager, anche grazie all’uso delle stock option
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Il buon funzionamento dei controllori del management e del mercato finanziario, come gli amministratori indipendenti, le società di certificazione di bilancio, le società di rating, gli organi di controllo dei mercati finanziari.
Tutte queste condizioni sono state falsificate dalla realtà.
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Le oscillazioni e le turbolenze del mercato non sono correlate al valore “reale” di un’azienda ma nel medio e lungo periodo riflettono la psicologia di massa degli investitori, che segue cicli di euforia e di panico.
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Il prezzo delle azioni non riflette i costi sociali e ambientali generati dalle attività aziendali. Questi infatti sono considerati delle pure e semplici “esternalità”. Quindi i prezzi delle azioni non riflettono il benessere sociale e l’“ottimo paretiano”.
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La grande maggioranza degli investitori è passiva rispetto alla gestione aziendale e specula sul breve termine. Alcune ricerche indicano che il tempo medio di investimento finanziario nelle società è inferiore all’anno. Gli asset manager sono remunerati in base alla loro performance annuale e quindi puntano a investimenti di breve periodo. E i grandi investitori istituzionali hanno in portafoglio centinaia o migliaia di titoli di diverse società e non possono quindi entrare nel merito della loro gestione.
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Le remunerazioni del top management basate sul rendimento azionario rappresentano il terreno più adatto per la corruzione e i reati aziendali e finanziari. Non a caso negli ultimi decenni si sono moltiplicati questi tipi di reati (casi Enron, WorldCom, Tyco, Global Crossing, ecc).
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I controllori di mercato sono quasi sempre in conflitto di interesse e quindi di fatto non possono o non vogliono controllare i mercati. In questo senso il caso delle agenzie di rating è per esempio clamoroso. La trasparenza informativa è meno che ottimale.
La miopia delle imprese, e dei loro azionisti che puntano solo alla remunerazione di breve termine, è infatti responsabile della maggior parte dell’inquinamento del pianeta, della precarietà occupazionale, della riduzione dei redditi da lavoro, dell’insufficienza degli investimenti di ricerca, della crescita delle spese di marketing per spingere all’eccesso i consumi privati, della deregolamentazione selvaggia dei mercati e dei superprofitti (e delle superperdite) speculativi.
Occorre quindi cambiare radicalmente il modello di corporate governance, e in particolare occorre che le imprese sostenibili si basino su nuovi fattori di sviluppo:
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un concetto multidimensionale di sostenibilità e di valore per tutti i portatori di interesse (“stakeholder value”). Le imprese sostenibili dovrebbero obbligatoriamente redigere un report annuale multidimensionale, non solo di conto economico e patrimoniale ma anche ambientale e sociale, sullo sviluppo della ricerca e delle tecnologie, ecc.
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gli stakeholder – e in particolare i lavoratori, che sono i principali stakeholder – devono potere avere potere decisionale nella società.
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le remunerazioni dei manager devono essere corrisposte in base al conseguimento degli obiettivi di sostenibilità nel lungo termine.
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le regole del mercato finanziario dovrebbero scoraggiare le speculazioni di breve termine e incoraggiare gli investimenti di lungo periodo – per esempio con la Tobin tax, differenziando i diritti di voto, o tassando in base alla durata degli investimenti, ecc.
Sostenibilità significa generare valore non solo per gli azionisti ma per gli stakeholder e la società nel suo complesso. Diventa quindi indispensabile che i lavoratori possano incidere sulle strategie e sulla gestione delle aziende. Infatti i principali stakeholder delle imprese sono proprio i lavoratori in quanto il loro destino, la loro occupazione, il loro reddito, le possibilità di carriera e di qualificazione professionale sono legati all’azienda che li impiega. In questa fase del capitalismo i lavoratori sono paradossalmente più interessati alle imprese dei proprietari delle imprese stesse: infatti gli investitori finanziari sono impegnati ad accrescere la remunerazione del loro capitale – grazie alle operazioni speculative sui titoli azionari, alle decisioni di distribuire alti dividendi, alle operazioni di buy-back delle azioni, di ristrutturazione e scorporo di rami di azienda, di fusione e acquisizione, ecc. Anche i manager sono spesso più interessati a ottenere alti redditi con le stock option e alle operazioni speculative (e grazie talvolta alla manipolazione dei valori di bilancio) che allo sviluppo delle attività di impresa. Sono invece soprattutto i lavoratori a volere salvaguardare e incrementare le capacità produttive delle aziende in un’ottica di lungo periodo, e anche a proporre innovazioni, come quelle indispensabili per l’economia verde.
Vitols ci avverte che ormai in 18 dei 28 paesi dell’Unione Europea esistono norme che impongono a diversi livelli e per differenti tipologie di aziende (private, quotate, statali, medie o grandi, ecc) una rappresentanza di lavoratori e/o sindacale nel board delle aziende. I casi tedeschi e svedesi sono i più conosciuti (l’Italia è uno dei pochi paesi europei che non prevede nessuna possibilità di co-decisione da parte dei lavoratori all’interno delle aziende). Tra l’altro si riscontra che le imprese in cui i lavoratori hanno possibilità co-decisionale sono spesso anche le più competitive, come dimostrano i casi della Germania e del nord Europa. In conclusione: è praticamente impossibile, o quantomeno altamente improbabile, che si possano raggiungere traguardi significativi verso un’economia più sostenibile, democratica, verde e innovativa, senza proporsi di modificare radicalmente anche il sistema e le regole di governance delle imprese.
* Questa è la sintesi del capitolo di un libro in corso di stesura sulle forme di democrazia industriale più opportune per uscire dalla triplice crisi, economica, ecologica, democratica.