Con quali strumenti si persegue l’obiettivo della decrescita? Per cambiare i consumi, l’approccio è individuale o collettivo? Qual è il ruolo dello Stato? Parliamone
Uno dei principali problemi che ha la sinistra politica e sociale nel nostro paese è l’assenza di una chiave di lettura della realtà. Indubbiamente, la prospettiva della decrescita è da questo punto di vista molto attraente. L’idea che le economie del cosiddetto primo mondo abbiano, da tempo, raggiunto livelli di produzione e consumo incompatibili con la sopravvivenza della nostra e delle altre specie e tali da far perdere di senso e di qualità le nostre esistenze ha un indubbio fascino. Inoltre, è un’idea in grado di interpretare sia la nostra quotidianità (si pensi alle città invase dai rifiuti come segno tangibile dell’eccesso di consumo) sia i problemi globali, come l’inquinamento o l’innalzamento generalizzato delle temperature. Non si tratta, quindi, di una semplice moda, ma di un pensiero che ha l’ambizione, e per certi versi anche i presupposti, per diventare forte.
Agli occhi di un economista tradizionale la decrescita manifesta tuttavia diversi problemi. Il primo riguarda il suo fondamento analitico. Evidentemente la decrescita non può esaurirsi nella semplice scelta di un limite di consumo e di produzione più stringente rispetto a quelli attuali. Se così fosse, basterebbe ipotizzare un cambiamento del vincolo di bilancio delle scelte individuali, senza intaccarne tuttavia i meccanismi di fondo di queste scelte: la razionalità intesa come mera massimizzazione delle utilità individuale, l’idea di non sazietà delle preferenze e così via. Ma se così fosse la decrescita non avrebbe alcun contenuto rivoluzionario, né potrebbe essere definita, come invece avviene da parte dei suoi sostenitori, conviviale. Una volta capito che cosa non è la decrescita, tuttavia, si tratta di capire che cosa è la decrescita. Non nei suoi obiettivi, che sono chiari, ma proprio nei suoi meccanismi. Quello che i sostenitori della decrescita immaginano è un processo di cambiamento delle decisioni di consumo e di produzione che avviene a livello individuale o a livello collettivo?
La risposta a questa domanda non mi sembra emergere con chiarezza dalla letteratura sulla decrescita. Probabilmente, entrambe le sfere di decisione, sia quella individuale sia quella collettiva, dovrebbero essere coinvolte, proprio perché la decrescita richiede un rovesciamento radicale della prospettiva tradizionale, secondo cui maggiore produzione , maggiore consumo e maggiore ricchezza significano maggiore sviluppo e maggiore felicità. L’importanza della sfera individuale spiega l’enfasi posta sulla etica del consumo e trova le sue concrete realizzazioni in tutti quegli aggregati sociali (associazioni, realtà comunitarie, gruppi di acquisto solidale) che aderiscono alla logica della decrescita e la diffondono attraverso una forte responsabilizzazione dei singoli che ne fanno parte. Ma a questo punto sorge spontanea la seconda domanda: i sostenitori della decrescita ritengono che questa dimensione sia sufficiente o pensano che ci sia bisogno di una azione collettiva organizzata, magari anche di una vera e propria attività di programmazione da affidare a qualche autorità statuale o interstatuale? La domanda non andrebbe liquidata come il frutto della nostalgia verso le economie pianificate. In effetti, ridurre produzione e consumi significa rendere ancora più drammatico il problema della distribuzione delle risorse, che presumibilmente dovrebbe uscire dalla polarizzazione tra, da un lato, il principio mercatista secondo cui la ricchezza va distribuita secondo la produttività e quello solidaristico secondo cui va distribuita secondo i bisogni. Non si vede come sia possibile realizzare la prospettiva della decrescita senza immaginare un coinvolgimento dello Stato non con semplici funzioni di indirizzo ma invece con poteri di decisioni circa quanto e come produrre (e consumare).
Passando dal piano teorico a quello delle realizzazioni, vorrei chiedere ai sostenitori della decrescita se esiste un qualche contesto in cui a loro avviso la decrescita conviviale è in via di realizzazione, e quale debba essere quindi il livello di crescita accettabile, ammesso che ve ne sia uno. Anche questa non è una domanda retorica o provocatoria. Mi è capitato, tempo fa, di partecipare ad un dibattito nel quale Serge Latouche, forse il più noto teorico della decrescita, portava ad esempio la frugalità e l’essenzialità di alcune società ed economie africane. Chiarito che condividevo questo richiamo, ho chiesto a Latouche se non ritenesse che, tuttavia, quelle società e quelle economie avrebbero comunque dovuto conoscere un certo processo di crescita in grado, per esempio, di garantire un minimo livello di tutela delle condizioni igienico-sanitarie. La risposta di Latouche mi è parsa, lo confesso, molto discutibile. Latouche negava tale esigenza perché, mi disse, non bisognava giudicare il livello di salute pubblica sulla base di criteri europei. Più esplicitamente, Latouche rifiutò di riconoscere che, per esempio, il tasso di mortalità per AIDS di molti paesi africani dovesse essere ritenuto come un fatto negativo e, appunto, bisognoso di investimenti, cure e, in una parola, di crescita economica. Il problema non è la disputa personale, ma evidentemente risiede nel fatto che la crescita economica non è un processo omogeneo a livello mondiale e che evidentemente la decrescita ha un senso diverso in Europa, in Brasile oppure nel corno d’Africa.
Credo che sbilanciamoci.info potrebbe essere il luogo giusto dove (re)iniziare una discussione serena, e possibilmente scevra da anatemi ideologici, sul ruolo che la decrescita può avere per la sinistra in questo paese e, più in generale, in Europa.