Lo sciopero dei fattorini di Foodora ricorda quanto avvenuto questa estate a Londra, dove a scioperare sono stati i lavoratori di Deliveroo e UberEats. La gig economy, tra riproposizione del “vecchio” e elementi di novità
Sabato 8 ottobre una cinquantina di lavoratori di Foodora, impresa attiva nel settore della consegna cibo tramite fattorini in bicicletta, sono scesi in piazza a Torino per protestare contro le condizioni di lavoro imposte dall’azienda. La vicenda ha avuto molto risalto mediatico e diversi quotidiani hanno parlato dell’azione dei lavoratori di Foodora come del primo sciopero in Italia della cosiddetta sharing economy.
Questa terminologia è però scorretta. Si parla solitamente di sharing economy in riferimento all’attività di aziende come Blablacar o Aibnb, che operano tramite piattaforme online che hanno essenzialmente la funzione di mettere in rete compratori di servizi e venditori che ‘condividono’ un loro bene, come la propria auto o la casa. Diverso è invece il caso di imprese come Foodora o Deliveroo: queste compagnie offrono un servizio di consegna cibo dai ristoranti agli utenti, utilizzando lavoratori che danno la propria disponibilità in precise fasce orarie tramite una applicazione per smartphone. L’unico elemento in comune tra i due tipi di attivitá é il fatto che basano le proprie operazioni su piattaforme digitali, ma la somiglianza finisce qui. L’uso di una app per intermediare la domanda e l’offerta di servizi e consumi e per gestire l’allocazione delle prestazioni lavorative accomuna dunque Foodora e Deliveroo ad altre piattaforme digitali di ‘micro-lavoro’, come Uber, MechanicalTurk o Task Rabbit, che ben poco hanno a che fare con l’idea di ‘condivisione’. In questo caso si tende perciò a parlare di gig economy, o “economia dei lavoretti” (gig).
La protesta dei lavoratori di Foodora, inizialmente partita da un contenzioso sulle biciclette (i mezzi così come la manutenzione sono a carico dei lavoratori) , si è poi allargata su tre fronti. In primis i lavoratori contestano il passaggio da una retribuzione oraria di 5,40 euro ad una retribuzione a cottimo (2,70 euro per consegna), che l’azienda ha implementato per tutti i neo assunti e che avrebbe progressivamente coperto l’intera forza lavoro. In secondo luogo ad essere messo in discussione è il tipo di contratto: i fattorini e i promoter (ossia coloro che si occupano di fare pubblicità all’azienda) che lavorano per Foodora non sono dipendenti ma risultano essere liberi professionisti assunti con un co.co.co. Non hanno quindi alcun diritto a ferie o malattie pagate. I lavoratori sostengono però che il loro rapporto di lavoro con l’azienda sia, di fatto, un rapporto subordinato: lo dimostrano il fatto di avere un orario concordato, turni stabiliti e un luogo di partenza per le consegne prefissato (per essere “connesso al sistema” un lavoratore deve trovarsi in una determinata piazza di Torino). Su questa base, i lavoratori rivendicano il diritto ad essere inquadrati all’interno di un contratto collettivo nazionale di lavoro. Fra i motivi della protesta vi è infine il licenziamento di due ragazze che lavoravano come promoter, colpevoli a quanto pare di aver partecipato ad una delle assemblee tramite cui i rider di Foodora hanno organizzato lo sciopero di sabato. Secondo quanto riportato dalla “Stampa”, il licenziamento è avvenuto tramite la disconnessione delle due lavoratrici dalla app tramite la quale si organizzano i turni di lavoro.
Lo sciopero dei fattorini di Foodora ricorda da vicino quanto avvenuto questa estate a Londra, dove a scioperare sono stati i lavoratori di Deliveroo e UberEats, la piattaforma di consegna lanciata dalla statunitense Uber (nota in Italia per il contenzioso con i taxisti). Anche in questo caso le proteste erano originate dal tentativo delle aziende di passare da una retribuzione oraria ad una a cottimo.
Come già avvenuto a Londra nel caso di UberEats, all’inizio dell’attività le imprese utilizzano un compenso orario. Ma il sistema di consegne a domicilio sul modello di Foodora o Deliveroo utilizza il meccanismo dell’algoritmo per gestire la fluttuazione della domanda: si basa sull’avere a disposizione una forza lavoro flessibile, che può venire mobilizzata o smobilizzata a seconda della domanda dei consumatori. Il tentativo delle imprese di passare ad un sistema di compensi stabilito a prestazione piuttosto che all’ora permette alle piattaforme di esternalizzare totalmente i costi dei potenziali tempi morti o di bassa domanda sui lavoratori stessi, operando dunque una stretta al ribasso sui costi del lavoro.
In questo senso, il modello Foodora ha molto in comune con le strette sui salari del mondo della logistica – in cui la maggior parte dei profitti vengono estratti attraverso l’intensificazione dei ritmi lavorativi dei facchini.
Il vecchio e il nuovo
Come è inevitabile nel caso di tematiche che comprendano l’uso di tecnologie di ultima generazione, molto del dibattito sul tema Foodora si è concentrato sugli aspetti di novità di questo tipo di attività lavorativa. Questo probabilmente spiega anche il grande risalto che ha avuto questa vicenda, che tutto sommato coinvolge un numero di lavoratori piuttosto ristretto. È necessario tuttavia fare chiarezza su cosa sia nuovo e cosa non lo sia.
Non è certamente un fatto nuovo, ma è bene ribadirlo, che l’attività dei fattorini e dei promoter di Foodora sia una prestazione lavorativa a tutti gli effetti, e non “un’opportunità per andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio”, come hanno provato a sostenere i responsabili italiani di Foodora. Come ha ricordato il giurista Valerio Di Stefano, fra i primi in Italia ad occuparsi di queste tematiche, i rider di Foodora svolgono “un vero lavoro che comporta tutte le contraddizioni del caso: il rispetto della professionalità, la responsabilità e la fatica fisica”.
Il fatto poi che il livello di paga sia troppo basso per permettere ad un lavoratore di sopravvivere lavorando esclusivamente per Foodora (lo stipendio difficilmente supera i 4-500 euro al mese) non significa che il rapporto di lavoro non sia tale, ma soltanto che si tratti di un cattivo lavoro: malpagato e ultraprecario. La logica che accomuna prestazioni lavorative di questo, ossia esternalizzare sui lavoratori il rischio e i costi dei tempi morti, è la stessa per cui in Italia si fa un uso massiccio dei voucher, il cui utilizzo è cresciuto enormemente nel corso degli ultimi anni e non accenna a fermarsi anche nel 2016. Proprio per questo appaiono particolarmente ipocrite le dichiarazioni del Ministro del Lavoro Poletti, che ha preso le difese dei lavoratori Foodora.
Di per sé, la logica che sta dietro alla gestione del processo di lavoro in una piattaforma come Foodora è un principio neo-taylorista: frammentazione del processo di lavoro in compiti misurabili e in cui tutti i lavoratori sono perfettamente sostituibili; privazione del controllo sul processo e i tempi di lavoro da parte del lavoratore, che viene costantemente monitorato tramite la app. Questo è coerente con alcune evidenze empiriche a livello europeo, che mostrano un aumento del grado di routine e standardizzazione in molte occupazioni. Sotto questo aspetto, più che essere innovativa, la gig economy rappresenta semplicemente una reincarnazione dei principi del management ‘scientifico’ che risalgono ai primi del Novecento.
Quello che è nuovo è certamente il mezzo attraverso cui il rapporto e il processo di lavoro sono gestiti: l’algoritmo, e le conseguenze ambigue che l’utilizzo dell’algoritmo ha per quanto riguarda le relazioni di lavoro. La gestione dei lavoratori tramite algoritmo offusca l’esistenza di un rapporto di lavoro standard, visto che a livello formale non ci sono impiegati ma solo, per usare una terminologia cara al management di Foodora, “collaboratori”. Questo permette di aggirare molte delle regolamentazioni previste dai contratti collettivi, come il diritto alla malattia.
Questo nonostante le pratiche di controllo, la gestione dei tempi e delle modalità di lavoro siano in tutto e per tutto simili a quelle di un rapporto di lavoro dipendente: obbligo di indossare la divisa aziendale, paga determinata dall’azienda, ritmi di lavoro ‘abituali’ imposti dall’algoritmo, varie regole e procedure da seguire, e così via.
L’uso della piattaforma digitale come mezzo di gestione del rapporto e del processo lavorativo crea altre opportunità per nuove forme di controllo e coercizione della forza lavoro. La valutazione dei lavoratori della gig economy secondo criteri di performance viene portata all’estremo dall’utilizzo della tecnologia, tramite la quale è possibile monitorare costantemente il lavoratore durante lo svolgimento dell’attività e misurare la sua velocità e efficacia. C’è poi un’individualizzazione totale del rapporto di gestione del lavoratore: i turni vengono dettati dall’algoritmo più che da un interlocutore fisico con cui confrontarsi, e anche i rapporti con i colleghi vengono frammentati e ridotti al minimo, perché ognuno interagisce direttamente con la propria app.
L’unica eccezione è data dai pochi minuti in cui i fattorini si ritrovano in un punto comune in attesa di un ordine, ed infatti è lì che sono nate le proteste dei lavoratori di Foodora, come ha raccontato uno di loro. In questo senso, è interessante notare come i casi di sciopero nella gig economy siano per ora rimasti concentrati in quei servizi in cui c’è ancora un aspetto di compresenza fisica dei lavoratori – come nel caso dei rider di Foodora e Deliveroo. Questo è molto più difficile nel caso di piattaforme in cui la prestazione lavorativa si svolge totalmente tramite mezzo digitale – come TaskRabbit e MechanicalTurk – benché anche in questo caso vi siano stati dei tentativi di organizzazione da parte dei lavoratori.
Dato il meccanismo di individualizzazione del rapporto di lavoro che abbiamo delineato non sorprende quindi che i responsabili di Foodora avessero inizialmente dichiarato di voler trattare esclusivamente a livello individuale con i lavoratori, una tattica per togliere forza ad una vertenza collettiva. Tuttavia, a causa della pressione mediatica generata dall’azione di protesta dei lavoratori, i gestori della piattaforma si sono visti costretti ad incontrare una rappresentanza collettiva dei rider, che hanno così segnato un primo punto a loro favore, anche se a questo non è seguita un’apertura di trattativa e i lavoratori hanno annunciato ulteriori azioni di protesta.
Un altro inquietante elemento di novità è il fatto che l’azienda abbia la possibilità di licenziare un lavoratore semplicemente disconnettendolo dal sistema, come è avvenuto nel caso delle due promoter licenziate. Basta un clic per negare al lavoratore l’accesso ai mezzi di produzione – un’operazione che costituirebbe mobbing in un rapporto di lavoro standard, e che diventa invece possibile nel caso di lavoro ‘autonomo’ pagato a cottimo.
La minaccia della ‘disattivazione’ e il potere totale che la piattaforma ha nel decidere chi possa averne o meno accesso è stata largamente documentata nel caso degli autisti di Uber – ed usata anche come base legale per sostenere che a tutti gli effetti la piattaforma avesse instaurato nei confronti dei propri contractor un rapporto di lavoro di lavoro di tipo subordinato.
Come ultimo elemento di novità, l’utilizzo delle valutazioni del servizio offerto da parte degli utenti, parte centrale del modello di performance management usato da imprese come Uber, aggiunge un’ulteriore fonte di controllo spostando il meccanismo di disciplina sul lavoratore dal manager al cliente, anche se questo magari non se ne rende conto.
In effetti l’uso della piattaforma digitale come forma di intermediazione lavorativa rende il lavoro che sta al suo interno a tutti gli effetti invisibile. Come già nel caso della logistica e dei servizi di consegna di altri prodotti, l’utente-cliente clicca, il cibo arriva a casa e nessuno si chiede come abbia fatto ad arrivare così velocemente e soprattutto come facciano I costi a rimanere così bassi. L’invisibilità del lavoro che sta dietro al funzionamento della piattaforma facilita la permanenza di condizioni lavorative ai limiti del legale, e rende queste aziende più attrattive agli occhi degli investitori perché permette loro di presentarsi come start-up tecnologiche – e dunque, in teoria, innovative – piuttosto che come semplici intermediari di lavoro che estraggono profitti tramite meccanismi vecchi quanto il capitalismo stesso: l’intensificazione dei ritmi lavorativi e il ribasso dei salari. L’invito dei rider di Foodora a boicottare la piattaforma in supporto alla loro protesta é dunque particolarmente efficace perché chiama in causa anche i consumatori come parte complice, e forza il lavoro invisibile a essere riconosciuto. In questo senso, ancora una volta, il fatto che i lavoratori di Foodora si possano vedere ed essere visti fisicamente aiuta a dare forza alla loro protesta.
Ed ora?
La protesta dei lavoratori e le lavoratrici di Foodora ha giustamente suscitato molto interesse, anche perché i lavoratori della gig economy sono spesso considerati ‘inorganizzabili’ a causa della frammentazione e del carattere transitorio della forza lavoro. Va sottolineato che il lavoratore tipo di questa azienda è solitamente alle prime esperienze lavorative. La paga bassa e le condizioni di estrema precarietà fanno sì che la percezione sia quella di aver poco da perdere: come ha dichiarato un altro intervistato, “c’è un punto di non ritorno passato il quale la ritorsione non è più efficace”. Non va quindi sottovalutata l’importanza di questa mobilitazione, anche per l’oggettivo elemento di novità. Secondo un articolo di Wired il settore del food delivery in Italia vale ad oggi 400 milioni di euro, con altre aziende come Deliveroo o Just Eat presenti oltre a Foodora. Non è quindi da escludersi che sull’onda della protesta di Torino le lotte per le rivendicazioni salariali si allarghino anche ad altre aziende e altre città.
Come nel caso inglese, dove i sindacati di base UWGB e UWW hanno giocato un ruolo importante per dare alla lotta una rivendicazione collettiva, e in maniera simile alle lotte nei magazzini della logistica a Piacenza e oltre, è probabile che anche in questa situazione sarà importante l’intervento delle forze sindacali. Anche nel caso di Foodora, come già nel settore della logistica, i sindacati confederali sembrano giocare un ruolo minore, probabilmente per la diffidenza da parte di una componente giovane e precaria e le difficoltà nell’organizzare i lavoratori in assenza di canali tradizionali di intermediazione. Ma qualsiasi sia la forza sindacale che si occuperà della questione, il punto su cui impostare la lotta è l’oggettivo elemento di rigidità del sistema: che servono (ancora) lavoratori umani per far arrivare le merci ai consumatori e realizzare il loro valore, e senza di essi Foodora o Deliveroo non possono esistere1. Dare visibilità a questi lavoratori e facilitare la loro organizzazione collettiva, superando l’individualizzazione del rapporto di lavoro facilitata dalla piattaforma digitale, rappresenta la chiave di volta per costruire una mobilitazione a lungo termine che non rimanga soltanto un fuoco di paglia. E forse l’indignazione collettiva del pubblico italiano nei confronti della vicenda Foodora può costituire un punto di partenza per mettere finalmente in discussione in maniera più fondamentale il modello di mercato del lavoro italiano, in cui la precarietà é all’ordine del giorno, anche quando non gestita tramite una app.
1 Non è probabilmente un caso che la principale concorrente di Foodora in Italia, Just Eat, abbia da poco intrapreso una collaborazione con l’azienda Starship Technologies per implementare la consegna robotizzata dei suoi pasti. Anche Uber sta lavorando per sostituire i suoi autisti con self-driving cars, automobili che si guidino da sole.