Secondo i dati diffusi dall’Istat 1 milione e 470 mila famiglie (5,7% di quelle residenti) vivono in condizione di povertà assoluta. In Italia su 60 milioni di abitanti ci sono quasi 12 milioni di poveri
I dati sulla povertà diffusi nei giorni scorsi dall’ISTAT sono allarmanti: 1 milione e 470 mila famiglie (5,7% di quelle residenti) vivono in condizione di povertà assoluta, per un totale di 4 milioni 102 mila persone (6,8% della popolazione residente) e ben 2 milioni 654 mila famiglie e 7 milioni 815 mila persone vivono in condizione di povertà relativa. In Italia ci sono quasi 12 milioni di poveri su 60 milioni di abitanti.
Questi dati sono l’indicatore di una situazione strutturale e non semplicemente congiunturale. La crisi degli ultimi anni ha, al più, aggravato processi di esclusione sociale vecchi almeno di un trentennio. Si tratta di processi che colpiscono in misura sempre più consistente anche chi ha un lavoro: la povertà assoluta interessa il 9,7% delle famiglie in cui il principale percettore di reddito è un operaio.
I processi di terziarizzazione e l’informalizzazione dell’economia, il peso crescente delle forme di lavoro nero, precario e temporaneo, denunciano lo scollamento tra l’attività lavorativa, da un lato, e l’incapacità delle politiche pubbliche di garantire condizioni minime di vita e integrazione sociale, dall’altro. Il cumularsi di svantaggi sociali a carico di determinati gruppi di popolazione – minoranze, immigrati, abitanti di aree periferiche (ma non solo) delle grandi città del nord Italia, abitanti del meridione – si traduce, sempre più drammaticamente, in un ampliamento della massa di soggetti costretti a vivere in condizione di esclusione sociale.
Gli assetti societari contemporanei, risultato dell’alchimia liberista, sono caratterizzati da sempre maggiori squilibri socio-economici per i quali esistono forme di protezione sociale sempre più ridotte, di fatto inesistenti o comunque inefficaci, specie quando hanno natura palesemente elettoralistica. Il caso italiano in ciò è emblematico, valga come esempio tra i tanti il bonus bebè. In un paese che a livello europeo è tra quelli che hanno meno strutture di asilo nido in rapporto al numero dei potenziali fruitori del servizio, si è avuto l’ardire di presentare come politica per le famiglie niente di meno che: ottanta euro al mese!
Oggi, i segmenti di una nuova emarginazione, a cavallo tra lavoro e non lavoro, si allargano sempre più e arrivano a comprendere anche quegli strati che fino a pochi anni fa erano considerati garantiti. Tra i fattori che espongono al rischio povertà non c’è più solo la perdita di lavoro, banalmente anche la nascita di un figlio, specie se il secondo o il terzo, può spingere una famiglia al disotto della soglia di povertà! Non casualmente è aumentato anche il numero dei minori in condizione di povertà.
Nonostante queste evidenze, un serio impegno per ricercare soluzioni politiche è del tutto assente e laddove c’è difficilmente assume forme diverse della cosiddetta flexsecurity. Insomma, la progettazione di politiche economiche che facciano del lavoro il fondamento della società (come vorrebbe, nel caso italiano, la nostra stessa costituzione) e il pilastro delle politiche redistributive è semplicemente inesistente.
L’impegno per implementare i servizi di welfare non trova spazio nell’odierna agenda politica nazionale e internazionale, anzi la direzione è un’altra: solo il ragionieristico contenimento della spesa pubblica dettata dal dogma dell’austerity. Così si continuano a smantellare parti sempre più consistenti di welfare, si sospendendo servizi e diritti, si colpiscono le fasce sociali più deboli e si fanno aumentare cronicamente le sacche dell’esclusione sociale. In questo scenario, il diffondersi della paura, dell’insicurezza individuale, dello sfilacciamento sociale, il venir fuori di atteggiamenti violenti e xenofobi, come la storia ci ha insegnato, non è affatto un aspetto da trascurare.