I paesi dell’Opec sono stati messi in crisi dalla scelta esplicita dell’Arabia Saudita di non ridurre la produzione propria per colpire i concorrenti con costi maggiori e mettere in difficoltà la Russia
Il basso prezzo del petrolio, e quindi dell’energia in generale, che riguarda anche le quantità realmente scambiate, non solo i futures, non sembra avere gli effetti espansivi che dovrebbero derivare dalla conseguente riduzione dei costi di produzione di tutte le merci. Può darsi che questo dipenda, in parte, dagli effetti opposti sugli Stati Uniti, che sono insieme grandi consumatori e grandi produttori. Può darsi che dipenda dai problemi di riconversione del massimo consumatore, la Cina. Può darsi che dipenda dalla finanza, dalla facilità della creazione di moneta, pubblica e privata, che rende false tutte le tesi del monetarismo e le aspettative che ne derivano. Tra monopoli, oligopoli e riduzione del contenuto energetico dei prodotti, forse il costo dell’energia non influisce più molto sui prezzi.
Resta che, al momento, la sovrapproduzione è stimata in un milione di barili al giorno (vedi, tra gli altri, il link IEA); restano i dubbi sulla possibilità dell’Iran di riprendere il suo posto sui mercati rapidamente; resta la possibilità di ulteriori cadute.
Si possono solo consultare le fonti accessibili per capire perché i maggiori paesi produttori non riducano l’offerta, anzi si facciano la guerra sui prezzi; quali siano gli effetti su loro stessi; quali siano le prospettive; quali gli effetti sull’India, che, al momento potrebbe avere i benefici maggiori. Oltre ai dati e alle previsioni IEA, ho usato anche i link all’Economist del 26 gennaio e al Guardian del 30 dicembre 2015.
La guerra dei prezzi continua
La caduta dei prezzi del petrolio si inserisce nella caduta dei prezzi di tutte le materie prime, con il peggioramento dei terms of trade per i paesi che le producono, in particolare in Africa e in America Latina. Le prospettive di molti paesi emergenti sono perciò nettamente peggiorate, anche perché le Aziende produttrici sono spesso multinazionali, che contabilizzano i loro profitti all’estero, perché le diseguaglianze sono grandi e crescenti (Sud Africa, Nigeria sono tra i paesi più diseguali del mondo) e perché i ricchi locali investono o conservano la loro ricchezza in paradisi fiscali grandi e piccoli. Almeno un grande paese, il Congo, è stato letteralmente sbranato dai vicini e dalle grandi potenze.
Nel caso dei prezzi del petrolio, i paesi dell’Opec, che controllavano i prezzi riducendo o aumentando la produzione secondo i casi, sono stati messi in crisi non tanto dalla crescita di paesi esterni al gruppo, tra cui gli Stati Uniti (grazie al fracking), quanto dalla scelta esplicita dell’Arabia Saudita di non ridurre la produzione propria, malgrado la domanda totale non assorbisse l’offerta, per colpire i concorrenti con costi maggiori (Brasile, Venezuela, Stati Uniti) e mettere in difficoltà la Russia.
La scelta aggressiva dei sauditi viene attribuita da molti commentatori al nuovo re Salman, o a suo figlio Mohammad bin Salman al Saud, trentunenne, ministro della difesa, vice primo ministro, vice erede al trono, che viene considerato il vero titolare del potere. Sarebbe lui ad aver deciso di colpire direttamente gli Houthi nello Yemen e decapitare l’imam sciita Nimr al-Nimr.
In ogni caso, gli altri paesi Opec non avevano nessuna possibilità di ridurre la produzione complessiva da soli e non hanno potuto che continuare a produrre, anche nei casi in cui di fatto producevano in perdita. Il commento dell’Economist: “Ci sono due problemi. Quando, nel novembre 2014, l’Arabia Saudita costrinse l’Opec a mantenere aperti i rubinetti malgrado la caduta dei prezzi, sperava di espellere dal mercato i produttori a costi più alti. … C’è stata la sospensione di investimenti per 380 miliardi di dollari, ma la risalita dei prezzi non dovrebbe esserci fino al 2017.”
Insomma, a breve, non sembra aver funzionato l’espulsione dei concorrenti meno efficienti. Con l’incrocio che c’è tra guerre, instabilità politica, migrazioni, conflitto tra grandi potenze, è inutile cercare prospettive definite. Nella previsione 2015, già citata qui, lo IEA sosteneva che questa volta la regolazione della produzione, con taglio momentaneo, sarebbe stata realizzata dai paesi non-Opec, in particolare dagli Stati Uniti, con la riduzione delle perforazioni con fracking. Smaltito il sovrappiù e risaliti i prezzi, gli Stati Uniti e il fracking sarebbero tornati in campo. Non è ancora passato abbastanza tempo poter per confermare o smentire la previsione.
Le conseguenze sui paesi produttori deboli
Si possono solo mettere in evidenza i dati reperibili sui paesi produttori fino ad ora. Bisogna distinguere due livelli: conseguenze sulle aziende produttrici, pubbliche o private che siano; conseguenze sugli Stati, che possono essere anche le più importanti, il vero obbiettivo della guerra economica.
Le conseguenze sulle aziende sono molto diverse a seconda della geologia e della tecnologia. La Petrobras, la compagnia di Stato brasiliana, che sfrutta giacimenti molto profondi (sette chilometri) di petrolio molto solforoso, sul momento, tenendo conto dei mostruosi costi di perforazione, produce in perdita. Ma ovviamente continua a produrre esattamente come prima, e lo farà per molti anni, data la dimensione del giacimento, perché non può disfare le perforazioni, gli impianti di raffinazione in mare, e perderebbe anche di più se non producesse. Certo sospende le perforazioni nuove fino a che non si capirà cosa può succedere. Per il fracking vale la stessa cosa. Solo che, per la natura della roccia e della tecnica usata, quei pozzi lì producono solo un anno o due. La riduzione della produzione si vedrà presto. Nessuno perfora più, salvo i casi particolarmente promettenti (da cui un aumento della produttività del singolo pozzo, come già ricordato qui).
Nel caso brasiliano ha problemi diretti serissimi la Petrobras; problemi indiretti gravi, che si aggiungono agli altri, il Brasile. Negli Stati Uniti hanno problemi molte piccole aziende, non la Exxon. Non ha nessun problema lo Stato. Il prezzo della benzina scende. In Venezuela invece lo Stato ha problemi gravissimi, economici e politici. Il prezzo della benzina sale: è la vendetta dei costi di produzione? Certo non è il trionfo del mercato.
Per dare un’idea delle difficoltà degli Stati più deboli prendo dalla Economist Intelligence Unit i prezzi del petrolio in dollari che porterebbe al pareggio di bilancio per alcuni Stati : Libia 208, Venezuela 120 (ma potrebbe essere 200), Ecuador 115, Nigeria 100, Arabia Saudita 96, Algeria 93, Angola 77, Iraq 76, Iran 70, Emirati Arabi Uniti 68, Qatar 58, Kuwait 52. Non c’è la Russia, che in ogni caso ha la potenza militare e il peso politico su cui contare.
Come si vede (a parte la Libia, che è già esplosa), Venezuela, Ecuador, Nigeria avrebbero bisogno di prezzi anche più alti di quelli precedenti la caduta per andare avanti senza discontinuità. Il Venezuela perde 685 milioni per ogni dollaro di caduta del prezzo. Forse il cambio di regime è una delle conseguenze desiderate della caduta del prezzo. Meglio non provare ad immaginare cosa succederà dopo, soprattutto per i poveri, perché l’eventuale Governo di destra non realizzerà in un giorno la diversificazione delle produzioni che né la destra né i Bolivariani sono riusciti a fare in decenni.
In Nigeria il petrolio copre il 75% del bilancio dello Stato. Il Governo ha in programma un aumento di spesa di quasi venti miliardi di sterline. Coperti come? Lotta all’evasione fiscale e revisione della spesa! Ma no!?
Anche l’Arabia Saudita ha annunciato un deficit del 15% per il bilancio 2015. Taglierà gli aiuti a Giordania, Libano, Palestina, Bahrain, Egitto? L’Egitto ha minacciato di importare petrolio dall’Iran. Si legge del progetto saudita, scritto con linguaggio neoliberale, di mettere sul mercato l’Aramco, di proprietà della dinastia, valore stimato mille miliardi di dollari. Accidenti! Tremano le colonne del mondo. Un uomo della strada, all’oscuro di tutto, non può che pensare che mille miliardi sono molti, ma che la finanza ne crea e muove molti, molti di più e che i sauditi potrebbero scoprire di non essere i più potenti al mondo. Hanno già scoperto, nella guerra con lo Yemen, che i bombardieri non sono l’arma assoluta, anche se chi li comanda non è americano.
La Russia dipende dal petrolio per quasi metà del bilancio e pareggia, forse, a 80 dollari. Anche gli Stati Uniti registrano decine di migliaia di licenziamenti. Ma qui il gioco è molto più grande.
Alternative
Se i potenti non sbilanciano tragicamente il mondo con la guerra, ci sono alternative. Il “Guardian” ha sostenuto la campagna Keep it in the ground, cioè tenerlo dove sta, sotto terra, il petrolio, e investire nelle energie pulite. Anche la previsione dei consumi energetici dell’India, citata, prevede non solo i vantaggi del basso prezzo dell’energia fossile ma anche quelli dell’abbassamento dei costi del solare e dell’eolico se India (e Cina) ci puntano, come affermano, per non soffocare e per autonomia strategica. Incrociamo le dita.