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La finanza al potere e l’Europa contromano

Nonostante la crisi l’Europa si sta muovendo verso un’ulteriore espansione della sfera finanziaria. Un’analisi del cosiddetto “documento dei cinque presidenti”, presentato a giugno 2015 da Jean-Claude Juncker

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Se in Italia dopo anni di recessione si è rivisto un segno più davanti al PIL, la modesta crescita sembra dipendere da fattori esogeni: sia l’euro sia le materie prime, e il petrolio in particolare, sono ai minimi storici. Un euro debole favorisce le esportazioni, mentre una bassa quotazione del petrolio rende meno gravose le importazioni, con ripercussioni positive sulla bilancia commerciale e sul PIL. Una situazione che non può nascondere il disastro di una disoccupazione giovanile che nel mezzogiorno si attesta ben oltre il 50%, una produzione industriale crollata di oltre il 25% dal 2007 a oggi, mentre nello stesso periodo i poveri assoluti passano dal 3,1 al 6,8% della popolazione italiana. Non che nel resto d’Europa le cose vadano molto meglio: la tanto annunciata e proclamata ripresa economica stenta, siamo ben lontani da una inversione di rotta rispetto alla crisi degli ultimi anni, le diseguaglianze crescono, sia quelle tra Paesi del “centro” e della “periferia”, sia all’interno dei singoli Paesi.

Sotto accusa rimangono le scelte di politica economica delle istituzioni europee e internazionali. Persino il FMI, membro autorevole della Troika, già a inizio 2013 ha fatto “uno stupefacente mea culpa”, riconoscendo come, nella gran parte dei Paesi occidentali, i tagli alla spesa pubblica comportano un crollo del PIL superiore alla diminuzione del debito. I piani di austerità non solo sono devastanti dal punto di vista sociale, ma sono nocivi anche da quello macroeconomico, con un rapporto debito/PIL che continua a peggiorare. A fronte di una situazione confermata da sempre più studi ed economisti, non solo le politiche economiche non cambiano, ma se possibile accelerano ulteriormente. La visione per il futuro prevede di esasperare tagli e controlli su una finanza pubblica considerata per definizione il problema, mentre la soluzione consiste nell’espandere dimensione e ruolo della finanza privata.

Questo paradosso emerge dalla lettura del documento “Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa”, conosciuto come documento dei 5 presidenti, in quanto presentato a giugno 2015 da Juncker per la Commissione UE, in stretta collaborazione con Tusk (Consiglio europeo), Dijsselbloem (europgruppo), Draghi (BCE) e Shulz (Parlamento UE). Il testo che dovrebbe quindi riassumere le proposte di tutte le istituzioni europee, sembra porsi l’obiettivo da un lato di espandere ulteriormente e dall’altro soprattutto di rendere permanente e istituzionalizzare delle scelte ben determinate in ambito economico e finanziario: la competitività come valore a sé stante, non il benessere dei cittadini ma la potenza commerciale come obiettivo delle politiche, sacrificando diritti sociali, ambientali e del lavoro pur di vincere una gara globale a chi esporta di più.
Per rendersene conto, basta leggere il capitolo del documento dei 5 presidenti su “convergenza, prosperità e coesione sociale”.

In quattro pagine in tutto compare diciassette volte la parola “competitività” (17!). In compenso, in un testo intitolato alla coesione sociale, si riesce nell’impresa di non menzionare mai parole quali “diritti”, “reddito” o “disuguaglianze”. In compenso si chiede la creazione in ogni Paese europeo di una autorità per la competitività, il cui parere dovrebbe poi essere considerato dalle parti sociali in sede di contrattazione. Possiamo solo immaginare quale potrebbe essere la posizione di questa autorità rispetto alle richieste di maggiori stipendi, tutele o diritti nel mondo del lavoro.
Il problema non è unicamente in una competitività che è divenuta un obiettivo in sé stesso. Ammesso e non concesso che così debba essere, la competitività di può giocare sul prezzo o sul prodotto. Semplificando, tagliare i costi di produzione o migliorare produttività e contenuti tecnologici. La seconda strada significherebbe investimenti nella ricerca e nella formazione.

Investimenti di lungo periodo che avrebbero quindi bisogno di “capitali pazienti”. Difficile pensare che tali capitali possano arrivare da una finanza privata che ragiona in millesimi di secondo. Difficile anche che arrivino da una finanza pubblica strangolata da austerità, tagli e sacrifici. Persino il piano di investimenti noto come “piano Juncker” e pomposamente presentato l’anno scorso come un “nuovo piano Marshall per l’Europa” si riduce a poche decine di miliardi versati dal pubblico, mentre la gran parte delle risorse dovrebbero arrivare dai privati. Privati che inevitabilmente pretenderanno di orientare tali investimenti alla ricerca del massimo profitto nel minore tempo possibile, non certo guardando le necessità sociali, ambientali ed economiche di lungo periodo.

In altre parole il documento dei 5 presidenti non solo insegue e rafforza il modello mercantilista in cui chi esporta di più vince, ma lo fa esasperando la “corsa verso il fondo” in materia sociale, di diritti, ambientale, fiscale pur di vincere una competizione su scala internazionale. Grazie principalmente al quantitative easing della BCE, come accennato l’euro è sceso rispetto al dollaro e le esportazioni stanno trainando una debole ripresa. Una politica nota come “beggar thy neighbour”, letteralmente frega il tuo vicino: una guerra monetaria e commerciale in cui tutti devono esportare più di tutti gli altri. Ancora prima degli evidenti limiti ecologici di un tale approccio, una strategia piuttosto difficile da realizzare su scala globale, a meno di non capire come esportare su Marte.

Non solo, ma le conseguenze del quantitative easing potrebbero essere anche peggiori. Di fatto, la stragrande maggioranza dei soldi immessi dalla BCE rimane “incastrata” in circuiti puramente finanziari, senza arrivare all’economia reale. Il rischio concreto è quello di gonfiare ulteriormente il valore degli attivi finanziari, mentre l’economia rimane al palo, depressa dall’austerità: la definizione stessa di una nuova bolla finanziaria, alimentata dalla banca centrale. Per questo molti analisti segnalano la necessità di un “QE per la gente”, facendo arrivare la liquidità direttamente a famiglie e imprese. L’immissione di soldi unicamente sui mercati finanziari e dei titoli di Stato rischia di essere una vera e propria droga che maschera i problemi dell’economia ma che provoca un danno ancora peggiore non appena viene interrotta.

Per dirla con uno slogan, la crisi attuale non è dovuta al fatto che non ci sono soldi, ma che ce ne sono troppi; è che sono (quasi) tutti dalla parte sbagliata. Somme inimmaginabili ruotano vorticosamente alla ricerca di profitti in operazioni che si svolgono in millesimi di secondo, mentre dall’altra parte per famiglie e imprese ci sono enormi difficoltà di accesso al credito. Da un lato, tramite i derivati posso scommettere persino sui prezzi del cibo, dall’altro milioni di contadini sono esclusi dai servizi finanziari. Non solo è instabile, non solo crea continui disastri, non solo ha continue necessità di capitali pubblici per non crollare, ma questa finanza non riesce nemmeno a fare ciò che dovrebbe fare. In questa situazione, è possibile pensare che la soluzione sia la creazione di strumenti per pompare liquidità ed espandere ulteriormente la sfera finanziaria? Al contrario, è necessario spostare verso l’economia almeno una parte delle sterminate risorse incastrate nel sistema finanziario se non in attività speculative.