Il reddito minimo potrebbe costare quanto la somma data dagli incentivi per le assunzioni e il bonus Irpef – 14,5 miliardi di euro – o quanto una somma pari alla spesa militare italiana nel 2015 – 23,5 miliardi. Lo dice l’Istituto nazionale di statistica: il reddito è sì una misura costosa ma non impossibile
Quando abbiamo iniziato a lavorare alla scrittura del Workers Act le audizioni alla XI Commissione “Lavoro, previdenza sociale” del Senato della Repubblica erano ancora in corso ed ancora oggi i lavori non sono terminati, per cui ad oggi è complesso comprendere lo sbocco di questa lunga ed elaborata discussione sul reddito minimo/reddito di cittadinanza in Italia. Nel frattempo però l’lstat ha presentato uno studio alla XI Commissione, in cui si analizza la fattibilità in termini di costi e di impatto sulla società, delle proposte di legge del M5S (Disegno di legge n. 1148) e di Sinistra Ecologia e Libertà (Disegno di legge n.1670), oggetto della discussione al Senato. Lo studio è molto interessante in quanto permette non solo di valutare i costi delle diverse misure di legge, ma anche l’impatto che queste misure possono avere sul contrasto alle disuguaglianze nel nostro paese.
La prima considerazione da fare è che l’entità della misura nei tre testi di legge risulta molto simile, 7200 euro annui per entrambe le proposte, calcolato diversamente: nella proposta Cinque Stelle calcolato come integrazione del reddito per raggiungere una soglia, mentre calcolato come intero contributo ne caso della proposta di Sel, in quanto non ben specificato il meccanismo nel testo. Parliamo pertanto di proposte che prevedono un’erogazione che va da 600 euro a 780 euro mensili (proposte Sel e M5S)1. Per quanto riguarda i criteri reddituali di accesso alla misura, essi variano dal reddito personale imponibile di Sel (è necessario avere un reddito personale imponibile inferiore a 8000 euro), al reddito netto annuo del M5S (è necessario avere un reddito netto annuo inferiore a 7200 euro).
I costi stimati nel 2015 per tali misure ammontano a circa 14,9 miliardi di euro (legge del M5S) e 23,5 miliardi di euro (legge di Sel). Per quanto riguarda la prima proposta di legge la platea comprenderebbe circa 2 milioni e 759 mila 8 famiglie con un reddito inferiore alla linea di povertà (10,6 per cento delle famiglie residenti in Italia). Mentre per quanto riguarda la seconda proposta le famiglie beneficiarie sarebbero circa 1 milione 960 mila, pari al 7,5 per cento della popolazione2.
La prima riflessione da fare riguarda i costi: innanzitutto l’Istat conferma che il reddito è sì una misura costosa, ma non dai costi impossibili. Se infatti facciamo un paragone tra le proposte di reddito e la somma dei 5 miliardi di euro spesi in incentivi per le assunzioni (i cui effetti sull’occupazione sono ancora incerti e instabili nel lungo periodo, specie senza investimenti) ed i 9,5 miliardi di euro spesi per il famoso bonus Irpef degli “80 euro, otteniamo guarda caso proprio 14, 5 miliardi, quasi pari al costo della proposta di legge del M5S. Altrettanto fa riflettere che se si paragona il dato della spesa militare Italia nel 2015 (pari secondo il XVI Rapporto Sbilanciamoci!, proprio a 23,5 miliardi di euro) si scopre che una misura di reddito, nella proposta di Sel, potrebbe costare alle casse dello Stato una somma pari alla nostra eccessiva spesa militare. Come al solito il tema delle risorse non riguarda la loro scarsità in termini assoluti, ma la rimodulazione di capitoli di spesa.
Al contempo, come si accennava già nel Workers Act il tema dell’introduzione del reddito minimo avrebbe maggior senso se inserito in un contesto più complessivo di redistribuzione del reddito, sostenuto dalla fiscalità generale, meglio ancora in un contesto in cui, come sostenuto in precedenza, si introducesse un’imposta specifica per tutti coloro aventi un reddito appartenente al decile più ricco della distribuzione dei redditi, si potrebbero già di per sé reperire le risorse disponibili a finanziare una prima sperimentazione nazionale. Proprio ieri Marta Fana dalle pagine del Manifesto quantifica questa aliquota a 0.05% da cui le finanze pubbliche otterrebbero potenzialmente un gettito pari a circa 19 miliardi di euro ogni anno.
Il tema però più importante, che ci consegna lo studio Istat riguarda proprio la riduzione delle disuguaglianze. Le misure infatti, costituiscono una rete di protezione sociale “compatta”, compensando eventuali insufficienze del sistema di welfare. L’impatto delle misure di reddito sull’indice di Gini3 è rilevante in quanto passerebbe dallo 0,30 a 0,281 (proposta M5S) e 0,276 (proposta di Sel). Per questo tipo di indicatore, si tratta di variazioni significative, in altre parole la disuguaglianza si ridurrebbe drasticamente, a maggior ragione finanziandola con un processo redistributivo.
Nello specifico l’Istat ci mostra una fotografia dei possibili beneficiari del reddito: coppie con figli minori (13,2 per cento delle famiglie), soprattutto monogenitori con almeno un figlio minore (30 per cento delle famiglie beneficiarie, con una maggiorazione del reddito del 76 per cento). La percentuale di famiglie con un reddito inferiore al 50 per cento (complessivamente) della linea di povertà relativa viene di fatto azzerata in tutte le ripartizioni geografiche, con un impatto maggiore nel Mezzogiorno dove, prima della simulazione, il 12,4 per cento delle famiglie si trova in condizioni di povertà più grave.
Il reddito minimo pertanto si conferma, anche a seguito di questo studio Istat, una misura che, a differenza di politiche spot come quella dei “bonus 80 euro”, potrebbe in primo luogo debellare del tutto la povertà assoluta, fatto socialmente rilevante per il nostro paese, riducendo esclusione e marginalità sociale. In secondo luogo il reddito impatterebbe positivamente sulla condizione sociale del nostro paese restituendo dignità ed autonomia ai soggetti più vulnerabili, non solo i poveri ma anche i working poors, disoccupati, inoccupati ed in particolare giovani, donne, genitori con difficoltà di conciliazione, abitanti del Mezzogiorno. Una misura, insomma, che proverebbe a scardinare alla radice i meccanismi di subalternità che ledono l’autonomia di questi soggetti e facilitano la loro ricattabilità.
La domanda che resta è la seguente: sarà in grado il Senato, anche a fronte di questi dati, di procedere ad una discussione matura in parlamento per concretizzare questo dibattito ed approvare un’unica misura che segni un punto di svolta nella nostra riforma del welfare?
1 Per quanto riguarda il testo di legge del M5S le stime si riferiscono a un sussidio che equivale alla differenza fra una soglia minima di intervento pari a 9.360 euro annui (stabilita secondo una valutazione dell’indicatore ufficiale di povertà monetaria al 2014, art.3 comma 1) e il 90 per cento del reddito familiare. Il beneficio mensile massimo, erogato alle famiglie senza reddito, è pari a 780 euro per un singolo e cresce con il numero di componenti della famiglia. Per quanto riguarda invece il testo di Sel il sussidio viene calcolato in somma fissa, pari come indicato nel testo a 7.200 euro annuali per le famiglie di una sola persona. Per le famiglie con più componenti il beneficio sale (come indicato nell’allegato A al Ddl) e l’ipotesi adottata è che tali importi rappresentino l’ammontare massimo del sussidio da erogare alla famiglia beneficiaria. L’attuale versione del disegno di legge non definisce una soglia di intervento, non consentendo di identificare le famiglie beneficiarie. Si è scelto di adottare la stessa soglia utilizzata nel disegno di legge 1148, pari a 9.360 euro annui per le famiglie di una sola persona e maggiorata in base alla scala di equivalenza “Ocse modificata” per le altre famiglie. Quindi, la soglia di intervento non è uguale al beneficio massimo erogabile (7.200 euro) e la popolazione obiettivo della misura è la stessa della proposta di reddito di cittadinanza presentata nel disegno di legge 1148.
2 Da un lato nella prima proposta l’Istat considera che nel 2015 è presente il bonus di 80 euro mensili che, aumentando il reddito disponibile di una parte delle famiglie interessate dal provvedimento, riduce la quota complessiva da erogare. Da altro lato nella seconda proposta si considera che Il beneficio medio, pari a circa 12 mila euro annui, non si riduce all’aumentare del reddito familiare, essendo stabilito in somma fissa per ipotesi. La misura raggiunge la quasi totalità delle famiglie al di sotto del 60 per cento della linea di povertà.
3 Il coefficiente di Gini, introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini, è una misura della diseguaglianza di una distribuzione. È spesso usato come indice di concentrazione per misurare la diseguaglianza nella distribuzione del reddito o anche della ricchezza. È un numero compreso tra 0 ed 1. Valori bassi del coefficiente indicano una distribuzione abbastanza omogenea, con il valore 0 che corrisponde alla pura equidistribuzione, ad esempio la situazione in cui tutti percepiscono esattamente lo stesso reddito; valori alti del coefficiente indicano una distribuzione più diseguale, con il valore 1 che corrisponde alla massima concentrazione, ovvero la situazione dove una persona percepisca tutto il reddito del paese mentre tutti gli altri hanno un reddito nullo.