Fondo cassa/Nessun investimento pubblico per investire nel settore e affrontare le questioni occupazionali. L’unico obiettivo sono le privatizzazioni
Al di là della valutazione di quanto espansiva risulterà, la Legge di stabilità 2015 in approvazione al Parlamento ha un buco evidente. In essa non vi è alcun segnale di un utilizzo degli investimenti pubblici che segnali l’esistenza di una visione strategia del governo Renzi sulla direzione da dare al nostro assetto produttivo in grave crisi.
È un segnale che indica come, neanche come il solito annuncio – siamo ormai lontani dalle prime versioni del Jobs Act con l’indicazione dei settori strategici da attivare con specifici piani industriali, – il governo Renzi si senta di precisare le linee di una politica industriale e dell’innovazione capace nel concreto, anche se in una prospettiva non breve, di contrastare le drammatiche condizioni e tendenze strutturali della produzione e dell’occupazione. Il governo è solo in grado di chiedere la fiducia su una legge finanziaria che mira di districarsi, in un’operazione che si rivelerà di piccolo cabotaggio, tra la soggezione ai vincoli europei e la necessità di catturare il consenso dell’elettorato e in particolare degli imprenditori. Se la memoria non farà difetto come al solito, si vedrà fra non molto come l’alleggerimento del costo del lavoro per le imprese non creerà quei maggior posti di lavoro che, con il medesimo sforzo finanziario, avrebbero potuto essere direttamente attivati con il finanziamento di un piano del lavoro finalizzato al rafforzamento del capitale pubblico e sociale, magari favorendo la rinegoziazione dei mutui Cdp per gli enti locali disposti ad avviare rapidi interventi sul territorio e la cui urgenza ci è continuamente ricordata dai disastri idrogeologici e dalla fatiscente edilizia scolastica. Non solo, ma impegni locali in questa direzione non saranno certamente favoriti dal taglio dei fondi richiesti per il concorso degli enti territoriali alla finanza pubblica.
Per quanto superfluo, va osservato che un segnale di un diverso approccio di politica industriale volta a sostenere lo sviluppo delle energie rinnovabili (oltre la riconferma dell’ecobonus), della valorizzazione dei beni culturali e del patrimonio artistico, dell’innovazione non può essere attribuito alla riproposizione di un credito di imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo concesso «a tutte le imprese indipendentemente dalla forma giuridica, dal settore economico in cui operano, nonché dal regime contabile adottato» (art. 7); una forma tanto generica da non modificare i deludenti risultati del passato e talmente burocratica da non esporsi a prevedere nemmeno un sostegno per l’assunzione di giovani ricercatori da parte delle imprese.
Il fatto che non vi sia un accenno concreto a un possibile impianto di politica industriale forse è meno sorprendente di quanto possa sembrare. La mancata considerazione di un intervento in questa direzione basato su un orientamento preciso degli investimenti pubblici sembra esprimere una sfiducia nella capacità dell’apparato statale a gestire questo obiettivo; se fosse così programmi di politica industriale sarebbero di fatto rinviati all’attuazione della riforma della burocrazia, cosa annunciata ma dai tempi presumibilmente molto lunghi.
Ma non mi sembra questa la risposta. Il sospetto è che il vero indirizzo di politica industriale sia rintracciabile in due assi della politica economica del governo Renzi; da un lato, la scelta di procedere nel processo di privatizzazioni e, dall’altro lato, nell’obiettivo di liberalizzare pienamente il mercato del lavoro. La decisione di cedere sul mercato quote significative di Eni ed Enel, tanto da portare la partecipazione pubblica al di sotto del capitale di controllo, non può essere giustificata dalla risibile esigenze di ridurre il debito pubblico (i 4,5 miliardi di introiti previsti sono una frazione di un centesimo del debito), ma è indicativa – come del resto viene ampiamente ripetuto dal nostro premier – della sua convinzione che il nostro futuro produttivo dipende dall’arrivo di capitale straniero, o che comunque si è reso straniero. È allora trasparente – ed anche esplicitato – che un incentivo decisivo a tale processo di deterritorializzazione del nostro apparato produttivo è costituito dagli effetti attesi di un Job Act che, completando il processo da lungo avviato, rende il lavoro, passato e quello futuro, del tutto subordinato alle esigenze delle imprese.
Una strategia che non ha bisogno di uno Stato investitore e, anzi, lo riduce a semplice gestore delle relazioni politiche e sociali in modo da renderle appetibili agli investimenti esteri. Come strategia miope e regressiva non è nuova; si colloca nella continuità di una classe politica, burocratica e imprenditoriale che non vuole e non è in grado di assumersi la responsabilità dello sviluppo della società.