Il governo prende atto del ciclo economico negativo. Quindi sarebbe indispensabile programmare una manovra triennale espansiva per contrastare un quadro tendenziale che prospetta altri anni di stagnazione
La Nota di aggiornamento al DEF (Documento Economico e Finanza 2014), sostanzialmente il quadro macroeconomico di riferimento della Legge di Stabilità 2015, registra una evidente inversione di tendenza rispetto al DEF di aprile. Il governo prende atto del ciclo economico negativo e, per la prima volta, registra che la crisi non è solo un problema di offerta. Come sottolinea il CER (Centro Europa Ricerche)[1], il DEF prende atto da un lato che l’Italia e l’Europa soffrono di un vuoto di domanda aggregata; dall’altro che le metodologie con cui la Commissione determina i livelli del saldo strutturale di bilancio vanno maneggiate con grande cautela, essendo concreto il rischio che esse favoriscano l’adozione di manovre pro-cicliche.
Non si tratta di aneddotica, piuttosto della presa d’atto che i comportamenti delle famiglie, delle imprese e delle così dette riforme strutturali necessitano di tempo per dare gli effetti attesi[2]. Il ricorso all’art. 5 del regolamento 1466/97 dell’Unione Europea rappresenta qualcosa di più del suo semplice richiamo. La crisi è più lunga e profonda di quella del ’29 e non può essere risolta con strumenti convenzionali. La “premessa” di Padoan al DEF travalica la denuncia di alcuni economisti “gufi”. Sintetizzando i passaggi più rappresentativi del Def, si osserva che:
1) la perdurante incertezza ha modificato i comportamenti di imprese e famiglie, riducendo investimenti e consumi;
2) l’inaridirsi delle fonti di reddito e dell’accesso al credito ha diminuito la capacità di spesa più di quanto immaginato;
3) la sola politica monetaria non è sufficiente a rilanciare la crescita, anche se ha stabilizzato il mercato finanziario;
4) gli effetti delle politiche strutturali si manifestano in ritardo e con minore intensità in ragione della contrazione della domanda aggregata;
5) la debole domanda europea, connessa agli ampi squilibri di parte corrente, ha limitato il contributo derivante dalle esportazioni ai fini della ripresa.
L’esito in cifre è un Pil previsto in diminuzione dello 0,3% nel 2014 quando in aprile si prospettava un aumento dello 0,8%, ed una crescita dello 0,6% nel 2015 contro una previsione primaverile dell’1,3%[3]. Se la crisi è più grave di quella del ’29, “per l’Europa, in assenza di politiche adeguate, si profila stagnazione e deflazione […] spostarsi su un sentiero di crescita significa agire con tutte le leve di politica economica”. Il primo effetto è quello di un slittamento del pareggio di bilancio al 2017. L’effetto sui conti pubblici è rilevante. Giocando tra indebitamento-avanzo primario tendenziale e programmatico, il governo libera dal gioco dei tagli 11,5 mld di euro, cioè le risorse necessarie per finanziare nel 2015 il bonus fiscale di 80 euro (7 mld[4]), ridurre il costo del lavoro alle imprese (3 mld) e finanziarie i nuovi ammortizzatori sociali (1,5 mld).
Rimangono le incongruenze e i cliché del Governo, ma i “gufi” avevano ragione.
Al netto delle “previsioni” di crescita del PIL, qui valgono le stesse considerazioni del Governo, tutti gli indicatori economici manifestano una evidente difficoltà.
Gli scostamenti tra il quadro tendenziale e programmatico registrano miglioramenti misurabili in decimali. Evidentemente le politiche economiche adottate dal Governo non sono adeguate (Tab.1). Se la disponibilità di 11,5 mld di euro producono una crescita addizionale di 0,1% per il 2015 e 0,2% per il 2016, il PIL dovrebbe salire dello 0,6% nel 2015 e dell’1% nel 2016, è del tutto evidente che le policy non funzionano. Inoltre, l’andamento delle importazioni e delle esportazioni danno conto della caduta della capacità produttiva del Paese. Infatti, il trend di crescita delle importazioni, nonostante il reddito sia piatto, è significativamente più alto di quello delle esportazioni. Sostanzialmente la crescita dei consumi delle famiglie prevista per il 2015 (da 0,5% tendenziale ad 1% programmatico), sempre che di crescita si possa parlare, sarà soddisfatto da beni e servizi provenienti dall’estero. Una fenomeno non nuovo, che la crisi ha esacerbato.
La crescita degli investimenti, in particolare quelli in attrezzature e macchinari, dovrebbero passare da 1,2% (tendenziale) a 2,2% (programmatico) nel 2015. Qui vale il vecchio adagio di Keynes: “non potete aspettarvi che gli imprenditori si mettano a varare programmi di ampliamenti mentre stanno subendo perdite”. Il quadro delineato dal Governo sembra più un auspicio che un quadro programmatico. Inoltre, gli investimenti delineati sembrano inadeguati per soddisfare la domanda (crescente?) di consumi. Se le importazioni sono superiori alle esportazioni vuol dire che il sistema produttivo necessita di riforme di struttura, non strutturali.
I conti pubblici rispecchiano il quadro prudenziale adottato da Padoan[5]. Nel 2014 l’indebitamento netto (deficit) salirà sino al 3% (Tab.2). L’effetto sarà quello di evitare una manovra correttiva non inferiore a 5-6 mld di euro per il 2014. Per il 2015 il governo agirà sia sull’indebitamento e sia sull’avanzo primario. Infatti, il saldo dell’indebitamento permetterà una spesa addizionale di 0,7 punti di PIL, ancorché già impegnata per il bonus fiscale e la riduzione del costo del lavoro, mentre il saldo dell’avanzo primario di 0,7 punti di PIL rallenterà l’applicazione del così detto fiscal compact (rientro dal debito di 1/20 della quota eccedente il 60%). Più precisamente l’indebitamento per il 2015 è collocato al 2,9% del PIL rispetto al 2,2% tendenziale; l’avanzo primario sarà pari a 1,6% rispetto al 2,3% del PIL del tendenziale. Il costo del servizio del debito rimane stabile al 4,5% del PIL, permettendo un discreto risparmio che Padoan stima in 5 mld di euro.
Se il DEF declina una Legge di Stabilità più coerente con la dinamica economica e occupazionale del Paese, ma si potrebbe dire la stessa cosa per l’Europa, i rischi non sono inferiori. Infatti, il governo inserirà nella Legge di Stabilità, per il 2016, una clausola di salvaguardia, cioè un intervento sulle imposte indirette – IVA e accise -, che potrebbe pregiudicare l’azione di stimolo della domanda. La clausola di salvaguardia, qualora non intervenisse la scure di Cottarelli, vale 12,4 mld di euro per il 2016, 17,8 mld per il 2017 e 21,4 mld per il 2018.
Nella Legge di Stabilità saranno presenti anche le così dette privatizzazioni che dovrebbero concorrere alla riduzione del debito. Il DEF stima le entrate in conto capitale pari allo 0,3% del PIL per il 2014[6], allo 0,7% di PIL per il 2015 e il 2016. La discussione sul tema è particolarmente delicata. Da un lato la cessione di proprietà pubbliche in una fase di declino dei prezzi e del corso delle azioni suggerirebbe maggiore cautela, dall’altra lo stato si priverebbe degli strumenti tecnici per implementare una qualche riforma di struttura. Come ricorda Roberto Artoni, le società partecipate dello stato sono state lo strumento tecnico per predisporre delle “coerenti” politiche industriali. Diversamente si lascerebbe al mercato la scelta dei competitors. Una scelta possibile, ma lo stato dell’industria italiana e le policy adottate dai così detti imprenditori coraggiosi, si veda Telecom oppure Alitalia, suggerirebbero maggiore cautela.
Sempre a proposito dei conti pubblici della PA è opportuno ricordare l’andamento della spesa per i principali comparti (Tab.3). In generale si osserva una certa stabilità delle principali voci di spesa della PA, anche se la riduzione del PIL intervenuta in questi anni suggerisce che ci sia stata, almeno, una riduzione in termini di prestazioni pro-capite, ma la dinamica di spesa per i redditi da lavoro dipendente pubblico manifesta una significativa contrazione se consideriamo che sono anni che non hanno il rinnovo del contratto. Infatti, la spesa per i dipendenti pubblici si riduce progressivamente, passando dal 10% del PIL del 2014 al 9,2% del 2018. In qualche modo il Governo da conto di cosa intende per riforma della Pubblica amministrazione.
Delineato il quadro generale del DEF e preso atto del parziale cambiamento di orizzonte delle politiche economiche, occorre analizzare attentamente l’effetto delle misure adottate dal governo per rilanciare l’economia del Paese.
Come già ricordato i provvedimenti del Governo hanno un impatto modesto sulla dinamica del PIL. Tra i valori tendenziali e programmatici lo scarto è di 0,1 punto decimale per il 2015 e 0,2 punti decimali per il 2016. Lasciando per il momento il quadro di lungo periodo, nel frattempo potremo essere tutti morti, si osserva che le misure a favore di imprese e lavoratori, adottate nel corso del 2014, hanno effetti risibili se commisurati alle risorse impiegate. Se il bonus fiscale di 80 euro e la riduzione del costo del lavoro per le imprese, per un valore complessivo di 10 mld di euro a regime, producono uno scostamento di 0,2 punti di PIL, sarebbe appena il caso di domandarsi se non fosse stato più utile spendere quel denaro in opere pubbliche o per l’industrializzazione della ricerca scientifica pubblica. Da un lato si sarebbe consolidata domanda certa, dall’altra si sarebbe potuto almeno immaginare una riforma di struttura.
Anche le altre misure a favore della crescita sembrano insufficienti. La riforma della PA, della giustizia, competitività e jobs act producono effetti positivi dello 0,2% nel 2016. Nel lungo periodo (2020) queste riforme producono il “miracolo” di una crescita di 3,4 punti di PIL. È sempre lecito pensare positivo, ma il Paese ha bisogno di riforme oggi, e i provvedimenti adottati non hanno modificato nulla della struttura, diversamente 11,5 mld di euro avrebbero dato degli effetti più favorevoli.
Dal quadro generale delineato nel DEF è possibile tratteggiare i principali tratti della manovra economica per il 2015, senza dimenticare che l’indebitamento al 3% del PIL ha evitato una manovra correttiva per il 2014. Possiamo parlare di una manovra doppia:
1) legata alla stabilizzazione dei provvedimenti adottati nel 2014 (bonus fiscale, riduzione cuneo e nuovi ammortizzatori sociali) finanziati via allontanamento del pareggio di bilancio al 2017, cioè con un deficit al 2,9% per il 2015;
2) misure di controllo della spesa pubblica (Enti Locali, Ministeri, Municipalizzate, Sanità).
Rimane un mistero il finanziamento del bonus fiscale di 80 euro con soli 7 mld di euro, mentre se ne aspettavano 10. Infatti, la relazione tecnica del provvedimento stimava in 6,6 mld le risorse necessarie tra maggio e dicembre 2014. Non solo la misura non sarà allargata ad altri soggetti (lavoratori autonomi, pensionati, incapienti, ecc.), ma dovrebbe essere rivista stante le risorse delineate. Che la riforma fosse mal scritta lo sapevamo; che necessitasse di notevoli miglioramenti era noto, ma di riduzione delle risorse non si era mai parlato. La proposta del TFR in busta paga serve, forse, a compensare l’allentamento del bonus fiscale?
Della manovra desumibile dalla ri-allocazione di indebitamento e avanzo primario si è detto, ma la Legge di Stabilità agisce su altre e importanti partite. Il quadro generale delinea una manovra due tra 10-12 mld di euro, fatta di tagli di spesa, ri-allocazione della stessa, e nuovi provvedimenti. Le principali misure di risparmio sono:
1) 1 mld dalle municipalizzate; se i Comuni si liberano delle proprie partecipate potranno beneficiare di un allentamento del Patto di Stabilità Interno;
2) 1 mld dalla sanità: i risparmi chiesti dal Governo erano di gran lunga maggiori, ma le regioni hanno fatto resistenza: infatti, tra Regioni e Governo era appena stato siglato un patto per la salute;
3) 3 mld da Regioni e Comuni, sempre con la promessa di rendere meno rigido il Patto di Stabilità Interno[7];
4) 3 mld dai Ministeri: su questo punto c’è un ombra; data la difficoltà di realizzare i tagli lineari del 3%, l’impressione è che il risparmio ricadrà per intero sul lavoro dipendente; infatti, nel quadro generale dei conti pubblici della PA è l’unica voce a contrarsi;
5) 2 mld dalle così dette agevolazioni; non dimentichiamo la clausola di salvaguardia (aumento imposte indirette);
6) 4 mld da risparmi per l’acquisto di beni e servizi.
Dal lato della spesa sembra profilarsi una sola “nuova” voce, direttamente legata al jobs act, cioè 1,5 mld per i nuovi ammortizzatori sociali.
Alla fine Renzi è stato costretto ad adottare la vecchia politica democristiana: spostiamo nel tempo i provvedimenti. Ma gli effetti nulli delle misure implementate dal governo creano un vuoto, e lasciano il campo ad una riflessione sulle politiche giuste e possibili. Persino di deficit buoni. Uno spazio che sarebbe il caso di riempire prima e durante la legge di stabilità.
Per fare ciò occorre partire, però, con una legge di stabilità che preveda spazi di manovra oggi inesistenti se si accettano i vincoli europei del deficit su PIL al 3% nel 2015 ed il semplice spostamento al 2017 degli obiettivi di medio termine relativi al pareggio di bilancio che prevede il Fiscal Compact.
Quindi sarebbe indispensabile programmare una manovra triennale espansiva per contrastare un quadro tendenziale che prospetta altri anni di stagnazione. Questa manovra dovrebbe non solo finanziare contratti di solidarietà intervenendo sugli orari, ammortizzatori e protezioni sociali, integrazioni di reddito di carattere universalistico, dato lo stato del mercato del lavoro e la crescita della povertà; non solo allentare i vincoli del Patto di Stabilità Interno per le amministrazioni locali, perché da li deriva un sostegno concreto alla domanda ed al lavoro. Occorre aggiungere misure concrete per la crescita via domanda pubblica selettiva, invece di privilegiare strumenti fiscali di incentivazione decontributiva di dubbia efficacia in uno stato di depressione economica in cui manca la domanda di mercato. Strumenti diretti di politica industriale, trasferimento tecnologico, innovazione organizzativa e del lavoro, istruzione e formazione sul posto di lavoro, investimenti per l’economia digitale e sostenibilità ambientale, rappresentano alcuni degli assi su cui direzionare l’intervento pubblico e quindi l’investimento delle imprese.
Il richiamo ripetitivo ed esclusivo alla fiducia non serve se avviene nel vuoto di domanda; anzi rischia di divenire un refrain che spinge famiglie e imprese verso comportamenti ancor più precauzionali, perché non si percepiscono azioni concrete per il futuro.
Il paese dovrebbe interrogarsi su un tema di fondamentale importanza: se non si fosse strutturato il diritto positivo, quale situazione sociale avremmo oggi e di quale libertà godremmo se attraverso l’intervento regolatore non fosse promossa l’equità di quello che alcuni economisti chiamano lo scambio fiscale, e se non si fossero garantiti, insieme ai diritti proprietari, anche i cosiddetti diritti “presi sul serio”, cioè i diritti di libertà dal bisogno? Per questo l’imposta di successione è così importante. Si tratta di ripristinare il principio dei diritti “presi sul serio”. Il nostro sistema fiscale è stato riformato molte volte negli ultimi anni. C’è stata la riforma del 1996-1997 di Visco (Iva, rendite finanziarie e tassazione d’impresa); il cambiamento dell’Irpef del 2001; la riforma Tremonti del 2004 sulla tassazione d’impresa e quella del 2007 che ha ridisegnato la curva dell’Irpef; la riforma e controriforma in tema di tassazione sulla casa, poi la delega fiscale del 2013 che aspetta ancora e decreti attuativi, infine, gli 80 euro di Renzi. Una serena ed obiettiva valutazione dell’insieme di queste riforme suggerirebbe di dare al fisco l’enfasi che merita. Nulla di più e nulla di meno.
L’obiettivo della Legge di Stabilità dovrebbe essere quello di ri-consegnare all’imposta (progressiva) IRPEF il suo profilo storico. È necessario che l’IRPEF torni ad essere l’imposta progressiva di tutti i redditi. Infatti, l’IRPEF è diventata una imposta progressiva che interessa sostanzialmente un solo reddito, quello da lavoro dipendente. Si tratta di ridurre drasticamente l’evasione fiscale introducendo norme e utilizzando strumenti tecnologici che la rendono più difficile da attuare e più facile da individuare, senza che questo comporti alcun aggravio per chi già paga regolarmente le tasse. Alcune ipotesi (NENS) sono quella di introdurre lo scontrino telematico, applicazione del metodo “base da base analitico” alle cessioni al consumo finale del commercio, pagamento con carta elettronica delle prestazioni professionali, applicazione del “reverse charge” alle operazioni intermedie[8], fatturazione telematica.
Per lo sviluppo del Paese è necessario cambiare il motore della macchina “Italia”. Le imprese italiane non riescono o non possono farlo, da sole. La specializzazione produttiva è un vincolo che non può essere aggirato senza un adeguato intervento pubblico (intelligente). La nostra intensità tecnologica è insignificante e gli incentivi hanno il solo effetto di favorire l’importazione di conoscenza dall’estero. Raccogliere il meglio della ricerca pubblica e industrializzarla è una priorità, anche per rispondere alla sfida europea dell’industrial compact. Un istituto ad hoc o la CDP potrebbero svolgere un ruolo rilevante, ovviamente con il concorso delle imprese che vogliono misurarsi con la competizione tecnologica. Sarebbe anche una risposta alla disoccupazione giovanile che ha profili formativi troppo alti rispetto alla domanda delle imprese.
L’ambiente, meglio ancora green economy e green jobs, potrebbe diventare una opportunità se solo si uscisse dagli slogan. La sfida, infatti, non è produrre più energia da fonti rinnovabili, piuttosto quella di modificare la struttura produttiva che utilizza l’energia. Senza un cambio di paradigma del modello di produzione, il consolidamento della così detta green economy rimarrebbe uno slogan. La green economy presuppone ricerca scientifica, nuovi beni strumentali e di consumo, ri-qualificazione delle abitazioni. Non si tratta di incentivare l’adozione delle tecniche, piuttosto di generare le tecniche superiori di produzione. Solo in questo modo è possibile creare lavoro buono in Italia, al posto di consegnarlo ai paesi esteri via importazioni.
La spesa pubblica deve superare la logica della “spending review”, che peraltro fallisce ad ogni cambio di commissario, adottando il metodo del governo della formazione della spesa pubblica. Infatti, una parte non trascurabile della spesa pubblica è direttamente proporzionale alle scelte (pregresse) dei passati governi. Sono scelte che condizionano il bilancio pubblico presente. Se adottiamo il principio del governo della spesa pubblica e l’efficacia in termini di politica economica, non solo la così detta partita doppia del dare-avere ragionieristico, sarebbe possibile prefigurare una migliore politica economica.
Le misure di contrasto alla crisi economica possono essere più di una, ne abbiamo indicate alcune, l’importante è avere una idea di quale Paese vogliamo lasciare alla prossima generazione.
[1] Rapporto CER, Aggiornamenti, 6 ottobre 2014. [2] Sempre che le riforme strutturali possano dare degli effetti. Ben più solide sarebbero le riforme di struttura, ma la materia è ormai relegata ai libri di storia e alle raccomandazioni di Riccardo Lombardi. [3] Rispetto alla legge di stabilità del dicembre 2013, il differenziale è ben 1,4% sia per il 2014 che per il 2015. Se poi si considerano i dati contenuti nella Nota di aggiornamento al Def2013, solo un anno fa, il gap è persino superiore. In aggiunta la previsione per il 2015 rischia essa stessa di essere sovrastimata, in quanto ottenuta applicando moltiplicatori della spesa errati. [4] Nella relazione tecnica del provvedimento sul bonus fiscale (80 euro) si leggeva: “Per l’anno 2014 [8 mesi] si stima un costo di competenza annua di circa 6,6 mld di euro con pari effetti sull’indebitamento netto”. Come possano 7 mld avere lo stesso effetto pro-capite nel 2015 (12 mesi) rimane un mistero. [5] L’Italia già adotta politiche deflattive al netto delle misure che intraprende: 60 mld sono destinati all’UE (ESM) e 80 mld per il servizio del debito. [6] È difficile immaginare come e quando queste privatizzazioni possano realizzarsi. [7] L’allentamento del Patto di Stabilità Interno potrebbe anche non essere sufficiente per coprire i tagli imposti. [8] In questo caso l’operazione imponibile è l’acquisto, anziché la cessione: l’acquirente emette la fattura e si addebita l’IVA dovuta allo Stato.