L’Italia resta il secondo paese manifatturiero d’Europa, ma il valore aggiunto viene prodotto nei settori tradizionali a bassa intensità tecnologica. Pubblichiamo tre estratti del libro, “Un paese in bilico” di Giuseppe Travaglini, Vincenzo Comito e Natalia Paci, appena uscito per Ediesse
L’Italia resta, seppure con crescenti difficoltà, il secondo paese manifatturiero tra quelli europei dopo la Germania. Questa posizione del settore industriale va però sempre più deteriorandosi. In Italia, esso rappresenta oggi circa il 16.7% del totale del valore aggiunto, rispetto al 22.3% della Germania, l’11.5% della Francia, e il 16.6% dell’eurozona. Tuttavia, il peso dell’industria italiana è diminuito nel tempo: era pari al 26% del valore aggiunto e dell’occupazione nel 1990, ma nel 1999 il peso dell’industria scende al 23% sia del valore aggiunto che degli occupati. Inoltre, il calo si accentua con la crisi del 2008: la produzione industriale scende di oltre un quinto tra il 2007 e il 2012, e il numero netto delle nuove imprese industriali in Italia è negativo per tutti gli anni Duemila.
Dai dati della Commissione europea (2012) risulta che nel 2009 una quota significativa del valore aggiunto manifatturiero dell’Italia è stata prodotta dai settori industriali tradizionali, a basso valore aggiunto e bassa intensità tecnologica. In Italia, questi settori rappresentano circa il 31% del valore aggiunto, mentre in Germania non vanno oltre il 18% e in Francia il 29%. Tra le maggiori economie continentali europee risulta peggiore solo la Spagna, con il 36%.
Complessivamente, nel 2009 la quota del valore aggiunto manifatturiero italiano nei comparti a basso e medio-basso contenuto tecnologico ammontava al 62%, rispetto al 44% della Germania, il 59% della Francia e il 64% della Spagna. La restante quota è prodotta nei settori manifatturieri a tecnologia alta e medio alta. Qui, le debolezze italiane emergono ancora più nettamente. La quota di questi settori è difatti pari al 38%, contro il 56% in Germania, 41% in Francia ed il 35% in Spagna. È da notare, inoltre, che negli ultimi due decenni la specializzazione dell’Italia è rimasta sostanzialmente stabile: il settore ad alta tecnologia rappresentava il 6.7% del valore aggiunto totale del manifatturiero nel 2011, rispetto al 6.5% nel 1992, un incremento trascurabile in un lasso di tempo di quasi 20 anni.
All’inizio dello scorso decennio la dinamica dell’economia italiana si è, difatti, separata nettamente sia da quella tedesca sia da quella dalle migliori economie del Centro Europeo. Su questo punto torneremo in seguito. Per ora, basti osservare che l’effetto di questa frattura nei diversi comparti industriali italiani è stato sempre negativo anche se diversificato. In alcuni, la perdita produttiva si è innestata su una tendenza declinante di lungo periodo. È questo il caso dei settori tessile e calzaturiero del Made in Italy che nel 2007 registravano già un calo del 25 e del 55 percento circa rispetto alla seconda metà degli anni Novanta, e che oggi hanno ridotto di un ulteriore 50 e 70 percento il loro livello produttivo. Sebbene questa tendenza recessiva sia condivisa anche dalla Germania e dalla Francia, il freno che ne è derivato per l’economia italiana è stato più grave in quanto il peso di questi settori sull’aggregato dell’industria è maggiore rispetto ai restanti paesi europei.
Anche nelle produzioni dei settori tecnologici più elevati, e caratterizzati da rilevanti economie di scala, come quelle dell’elettronica e degli autoveicoli, si è manifestata una tendenza recessiva di lunga durata. Precisamente, rispetto alla metà degli anni Novanta, questi comparti hanno perduto, rispettivamente, circa il 40 e il 60 per cento dei propri livelli produttivi. Per esempio, in quello automobilistico, sostanzialmente la Fiat, nel 2011 sono state prodotte in Italia 490 mila autovetture, quasi un milione in meno del 2007. Nello stesso arco temporale la produzione tedesca è aumentata di 700 mila unità, con un contributo notevole della Volkswagen.
Come è stato già osservato da Gallino (2003), un’idea della situazione in cui verte l’industria italiana è fornita dall’elenco delle maggiori 500 società del mondo, per grandezza di fatturato e occupazione, pubblicato annualmente dalla rivista Fortune. Poiché l’Italia mantiene ancora, per il momento, la posizione di ottava economia del mondo, ci si attenderebbe che in questa speciale classifica siano presenti un numero adeguato di imprese industriali italiane. Invece, nell’anno 2012 ne compare una sola, l’Eni, che opera nel campo dell’energia, al 17° posto. La Fiat, simbolo della grande industria automobilistica italiana, che nel 2003 era in 49° posizione, sebbene in discesa di 16 posti rispetto al 2000, è ora assorbita dall’Exor Group, in 26° posizione, controllato dalla famiglia Agnelli. Nel portafoglio del gruppo Exor però la Fiat è solo una quota partecipativa, benché importante.
Scorrendo la classifica di Fortune non troviamo nessun’altra azienda italiana della chimica, farmaceutica, informatica, meccanica, e nessuna azienda del settore dell’aeronautica civile e della cantieristica. Ovvero, sono assenti tutti quei comparti industriali, insieme a quello dell’auto, che restano in ogni paese, sia nella fase di sviluppo che nella maturità, tra i più importanti per numero di dipendenti, fatturato, innovazione e ricerca. Al contrario, troviamo tra le prime dieci società del mondo – oltre alle grandi aziende di estrazione petroli e produzione di energia (sette in tutto) – la Volkswagen (e la Toyota) che erano molto lontano dal vertice solo un decennio fa. L’unica altra società solo parzialmente industriale italiana presente nella classifica è l’Eni (52°). Le altre italiane (poche, rispetto agli altri paesi di nuova e vecchia industrializzazione) sono tutte società finanziarie e dei servizi, anche se queste ultime sono configurate più come contenitore finanziario che imprese industriali (Assicurazioni Generali 49°, Unicredit Group 188°, Intesa Sanpaolo 221°, Telecom Italia 281°, Poste Italiane 368°). È facile capire che il processo di de-industrializzazione dell’economia italiana condiziona negativamente sia la produttività e l’accumulazione che la nostra competitività internazionale.
In effetti, nel contesto europeo il vantaggio competitivo della Germania rispetto all’Italia, e ad altri paesi dell’Europa meridionale, sia in termini di competitività di costi che di specializzazione nelle esportazioni a medio e alto contenuto tecnologico, ha determinato una forte domanda di beni tedeschi (soprattutto macchinari e apparecchiature tecnologiche) da parte delle economie emergenti e dei paesi produttori di petrolio. La Germania è stata in grado di sfruttare le opportunità offerte dall’allargamento dell’Unione Europea del 2004, tramite consistenti investimenti diretti nei nuovi paesi dell’Europa centrale e orientale per sfruttare i vantaggi derivanti dal basso costo della manodopera e dagli elevati rendimenti del capitale. Nel 2012 la Germania ha esportato la cifra record di 1110 miliardi, seconda solo alla Cina: si tratta di un quarto delle esportazioni di tutta l’eurozona, e dell’8.7% di quelle mondiali. Un risultato francamente eccezionale, che ha contribuito a circa la metà del tasso di crescita del Pil tedesco nello stesso anno.
Giuseppe Travaglini, Vincenzo Comito e Natalia Paci “Un paese in bilico” , Ediesse 2014