Matteo Renzi vorrebbe finanziare la riduzione delle tasse con i proventi della vendita del patrimonio delle case popolari. Ecco perchè non è possibile e nemmeno auspicabile
In due recenti interviste (Affari e finanza e Il Sole 24 Ore rispettivamente del 23 e 26 settembre), Yoram Gutgeld, accreditato come il principale consigliere economico di Matteo Renzi, ha dichiarato che uno degli obiettivi di politica economica, di un eventuale governo presieduto dal sindaco di Firenze, dovrebbe essere il sostegno alla domanda di consumi. Per perseguirlo viene proposta la riduzione dell’Irpef di 100 euro al mese per i contribuenti con un reddito mensile sui 1.500 euro. Costo annuo dai 15 ai 20 miliardi di euro, per almeno 5 anni. Dove trovarli? Risposta: dal secondo anno in poi le risorse dovrebbero provenire dalla lotta all’evasione fiscale e da tagli alla spesa; per il primo anno dalla “vendita degli asset dello stato: Eni, Enel, Poste e Ferrovie da un lato; dall’altro, dalla parte più vendibile del patrimonio immobiliare, ossia le case popolari, con prezzi di favore nei confronti degli inquilini” (da Il Sole 24 Ore).
L’obiettivo del sostegno alla domanda è condivisibile, ma la fattibilità delle iniziative attraverso cui perseguirlo deve essere oggetto di verifica. Su quella dell’alienazione di alloggi di proprietà pubblica è lecito qualche dubbio.
Un ritorno a Brunetta
Il proposito di vendere le case popolari ai loro assegnatari non è nuova. Porta le impronte di Berlusconi e di Brunetta. Questa possibilità è prevista da uno dei tanti “piani casa” promossi dall’ultimo governo del centro destra, quello disciplinato dalla legge 133/2008. Il suo articolo 13, sotto il titolo “misure per valorizzare il patrimonio residenziale pubblico”, prevede la sottoscrizione di accordi stato-regioni-comuni per l’alienazione degli immobili di proprietà pubblica.
L’attuazione di quella norma divenne un cavallo di battaglia dell’allora ministro Brunetta. Egli prevedeva una vendita a prezzi molto agevolati, determinati attualizzando i canoni di affitto, pagati dagli assegnatari che abitano gli alloggi, per il periodo di una ventina di anni. Le case sarebbero state pagate dai loro nuovi proprietari, con la sottoscrizione di un mutuo a tasso di interesse zero, con rata uguale al canone pagato (intervista rilasciata da Brunetta a Panorama del 13/3/2009). I canoni medi mensili delle case popolari non in tutte le realtà raggiungono i 100 euro. Di conseguenza la vendita sarebbe stata una svendita.
Il ministro ipotizzò di organizzare un vero e proprio D-Day, pensato come una grande festa per celebrare la firma, davanti ai notai, delle carte per la compravendita degli alloggi da parte di tutti gli inquilini interessati.
La festa Brunetta non riuscì a farla, ma qualcuno ha pensato che recuperare la sua idea può essere utile.
L’esproprio illegittimo
Senonché, ora come allora, è sorprendete constatare come chi propone di alienare le case popolari per finanziare, con i relativi proventi, politiche statali, non si sia premurato di verificare almeno la legittimazione a venderle da parte dello stato. Come è stato ribadito dalla Corte costituzionale, la competenza, in questa materia, è esclusiva delle regioni. Solo esse possono decidere se vendere o meno un patrimonio di cui sono proprietarie, direttamente o tramite gli Iacp (in qualche caso è stato trasferito addirittura ai comuni). La sua vendita da parte dello stato si configurerebbe, pertanto, come un esproprio illegittimo.
Ogni regione applica propri criteri e procedure per la formulazione e l’attuazione di piani di vendita della case popolari. Quanto al prezzo, si parte, generalmente, da quello di mercato. Anche Gutgeld ipotizza, invece, che esso debba essere determinato in modo da favorire gli inquilini. Il che ha due implicazioni: 1) il patrimonio dovrà essere svenduto, poiché, nell’ipotesi meno favorevole agli inquilini, il prezzo sarà determinato considerando la rendita catastale, e, quindi, sarà di almeno 2-3 volte inferiore a quello di mercato; 2) come conseguenza di ciò, l’operazione accentuerà gli aspetti di iniquità orizzontale che caratterizza la gestione del patrimonio di alloggi pubblici, poiché i nuclei familiari che hanno già beneficato, anche per anni, di canoni molto bassi (in alcuni casi irrisori), potranno diventare proprietari a prezzi di realizzo.
Una sinistra senza case popolari?
Tuttavia, nonostante i prezzi bassi, il successo di un eventuale piano di alienazione non è garantito: gli inquilini delle case popolari non subiscono molto il fascino della proprietà. Lo attesta l’esperienza già maturata con la legge 560/1993, che impose agli enti proprietari di vendere tra il 50% ed il 75% dei circa 830 alloggi da allora essi posseduti, ad un prezzo pari a cento volte la rendita catastale, con uno sconto fino ad un massimo del 30%.
La corte dei conti ha rilevato che 10 anni dopo l’approvazione di quella legge, nelle 13 regioni per le quali era riuscita a reperire i dati, gli alloggi venduti erano stati circa 70 mila, ad un prezzo medio intorno a 30.000 euro.
Sulla base di quell’esperienza, sia per tempestività sia per ammontare finanziario, sembra evidente che l’apporto, all’operazione ipotizzata da Gutgeld, della vendita del patrimonio di case pubbliche sarebbe modesto.
La proposta in questione si presta, tuttavia, ad un rilievo che va oltre la prevedibilità del suo modesto impatto. La legge 560/1993 imponeva, agli enti proprietari degli alloggi, di reinvestire i proventi delle alienazioni nello stesso settore dell’edilizia residenziale sociale. Questa condizione ricorreva anche nelle ipotesi formulate dal centro destra. In entrambi i casi la vendita degli alloggi pubblici non prefigurava un disimpegno pubblico dalle politiche per la casa. Anzi i piani di alienazione erano giustificati, oltre che dalla ricerca di consenso, anche dalla necessità di trovare risorse –in mancanza di altre fonti- per accrescere e migliorare il patrimonio delle case popolari.
Ora, è evidente che se la motivazione della vendita delle case popolari è quella di raccogliere fondi per finanziare la riduzione della pressione fiscale, si sancisce, di fatto, il sostanziale abbandono, da parte dello stato, di un segmento rilevante (anche se sempre più trascurato) del nostro stato sociale.