Lo spirito che anima i nuovi revisori della Costituzione sembra condurre a una concentrazione enorme di potere nelle mani del presidente in assenza di alcune fondamentali garanzie
La promessa, o minacciata, riforma della nostra costituzione, parte II, viene esibita al momento con un marchio di fabbrica (il semipresidenzialismo) e uno slogan (elezione diretta del presidente della Repubblica). In mancanza di indicazioni meno vaghe il dibattito sugli organi di stampa appare centrato fondamentalmente su una lettura delle intenzioni degli attori politici autonominatisi costituenti: intenzioni pericolose secondo gli oppositori di questa revisione costituzionale (con procedura incostituzionale secondo molti costituzionalisti); intenzioni ispirate al bene comune secondo la variegata schiera dei proponenti. Sarebbe opportuno porsi in maniera più stringente alcune domande elementari. In primo luogo, di che si parla esattamente quando si parla di semipresidenzialismo? Non bisognerebbe mandar giù l’attenuazione lessicale e attirarsi la risposta che si tratta del modello francese, perbacco, e che cosa volete di più. Effettivamente non vorremmo un ragionamento pretestuoso il quale ammonta a dire che, siccome l’Inghilterra ha prosperato più o meno per tre secoli con un crescente grado di libertà e democrazia senza uno straccio di costituzione, nessuna costituzione è necessaria affinché l’Italia si avvii finalmente a un migliore avvenire. In secondo luogo, è possibile accertare in modo più esatto, articolato e documentato le intenzioni costituzionali dei proponenti?
Comincio con il rispondere alla seconda domanda, per la quale disponiamo di una fonte importante. Gaetano Quagliariello ricopre la posizione istituzionale di ministro per le riforme con gli strumenti intellettuali e la convinzione necessaria a condurre l’operazione, e sa di che cosa parla. Nel 2003 ha pubblicato un libro di grande impegno e mole su De Gaulle e il gollismo in cui, nel presentare le varie interpretazioni della costituzione francese del 1958, dichiara anche i propri orientamenti circa la politica costituzionale da perseguire in questa fase storica. Vista nel contesto europeo dei decenni successivi la costituzione gollista appare ai suoi occhi come il modello che lascia da parte l’obiettivo “di creare Carte che fossero espressione e fonte di patriottismo costituzionale, e dunque costruite sulla base dei valori politici selezionati dal secondo conflitto mondiale” e sostituisce ad esso quello di “avere istituzioni idonee a governare la società del benessere”. Il che ammonta a dire che la parte I della nostra Carta è un residuo estraneo alla logica delle nuove costituzioni, il quale magari può anche rimanere, tanto è inattivo. Infatti non esiste nella costituzione francese nessun equivalente della nostra parte I, come era stato invece fino al 1958, salvo che non si voglia considerare tale il preambolo, con il rituale richiamo alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e alla precedente carta.
Grazie a questo carattere sostanzialmente strumentale, costituzioni di questo tipo possono essere rapidamente (è una modalità su cui l’autore insiste) pattuite anche da “sostenitori di posizioni fino a poco prima ritenute inconciliabili”, come nelle transizioni dal franchismo o dai regimi comunisti alla democrazia, ma anche in democrazie che avevano di recente cambiato la propria carta, come Islanda, Irlanda, Finlandia (la dubbia cronologia e classificazione dei casi elencati dall’autore non è rilevante). Il denominatore comune che esprime il nuovo carattere di questi casi molto diversi (provate a mettere a confronto la costituzione finlandese del 1999 con quella francese) è l’elezione diretta del presidente della Repubblica e la sua quota di partecipazione al potere esecutivo, “il quale, dal canto suo, conserva un rapporto di tipo fiduciario con le Camere”. Questa quota può essere molto diversa, ma il fatto cruciale è che la sua grandezza “deve considerarsi variabile, determinata dalle contingenze e dalle circostanze” (pp. 482-483). Questo “carattere elastico dei meccanismi che regolano la forma di governo” è ciò che Gustavo Zagrebelsky ha bollato come il camaleontismo dei regimi semipresidenziali: evidentemente il difensore e il revisore della costituzione concordano sul fatto, mentre dissentono sul valore. Il punto è che questo presidente dotato di una quota indeterminata di potere esecutivo non ha bisogno di nessun rapporto fiduciario con il parlamento. Possiamo quindi essere sicuri che l’orientamento dei sostenitori della revisione riguarda, prima ancora che la specifica configurazione del potere esecutivo, la rigidità della carta, quell’impedimento alla manipolazione agevole del patto costitutivo da parte delle maggioranze politiche che di volta in volta si formano il quale ha sin qui almeno parzialmente protetto il nostro paese.
Si può ora rispondere in modo più mirato alla domanda circa ciò che Quagliariello intende per semipresidenzialismo. La questione non riguarda semplicemente la distribuzione del potere esecutivo tra presidente della Repubblica e governo; non riguarda neppure la grande ampiezza della sfera di intervento del potere esecutivo, mentre quella del legislativo è strettamente definita e delimitata; essa riguarda soprattutto la possibilità di intervento del presidente sul potere legislativo, con la sua autonoma facoltà di sciogliere l’Assemblea (art.12), o di indire, su proposta del suo governo, referendum su progetti di legge riguardanti l’organizzazione dei pubblici poteri (art.11, che ha avuto un’importante allargamento nel 1995). A questo si aggiunga la facoltà per il governo di attuare per decreto la legge di bilancio e la legge di finanziamento della previdenza sociale qualora l’Assemblea non deliberi rispettivamente entro settanta e cinquanta giorni (art. 47). Il governo stesso del resto fissa l’ordine dei lavori dell’Assemblea. La questione riguarda quindi la concentrazione nelle mani del presidente e del suo governo di un potere di intervento diretto nella funzione legislativa che il presidente degli Stati Uniti può sognarsi: basterà riguardarsi qualche cronaca dei rapporti di Clinton e Obama con i rispettivi Congressi.
Dunque quando i revisori della Costituzione ci dicono che si tratta di semipresidenzialismo alla francese la pretesa rassicurazione ci preoccupa assai, perché rispetto al presidenzialismo all’americana si tratta di una concentrazione di potere assai maggiore, per di più, ma non a caso, in assenza di alcune fondamentali garanzie. Si tratta di una costituzione poco rigida (art.89). Più della metà degli articoli sono oggi diversi da quelli del 1958; la stessa elezione diretta del presidente fu introdotta solo nel 1962. Invece la costituzione degli Stati Uniti è difficilissima da cambiare (sono possibili solo emendamenti, sono richieste maggioranze dei ¾ dei soggetti aventi diritto). Inoltre la costituzione francese non ammette referendum di iniziativa popolare, essendo esso pensato invece come scelta delle istituzioni di coinvolgere il corpo elettorale (Quagliariello, p. 520). Infine il Conseil constitutionnel è lontano dall’assomigliare alla Corte suprema degli Stati Uniti o alla nostra Corte costituzionale (artt. 56-61). Formato da nove membri, tutti di nomina politica, più gli ex-presidenti della Repubblica, ad esso “fu assegnato un compito specifico e circoscritto: garantire il rispetto dei limiti imposti al potere legislativo[…], ma non si ritenne di includere tra le sue competenze l’accertamento di possibili violazioni del preambolo della costituzione, contenente i principi generali. E, soprattutto, si ridusse al minimo l’elenco dei soggetti che avrebbero potuto adire il Conseil: il Capo dello Stato, il Primo ministro ed i Presidenti dei due rami del parlamento” (Quagliariello, p. 477). Dunque non i cittadini, non la magistratura ordinaria. Solo nel 1974 furono aggiunti tra gli aventi accesso sessanta deputati o senatori.
Che questa costituzione, nata in circostanze drammatiche, ma totalmente diverse da quelle in cui noi ci troviamo, abbia potuto servire discretamente il popolo francese non dovrebbe impedire a nessuno di vedere quanto nelle nostre lo stesso modello sarebbe suicida per la democrazia.