Il tasso di disoccupazione alle stelle, soprattutto tra i più giovani. I consumi al livello più basso dall’inizio degli anni Novanta. Istantanee dalla crisi nei dati dell’Annuario Istat
Bastano pochi numeri per fotografare la crisi italiana. Il tasso di disoccupazione è salito nel 2012 al 10,7 percento, dall’8,4 del 2011 (a marzo di quest’anno ha già toccato l’11,5 percento). Quello dei giovani tra i 15 e i 24 anni svetta al 35,3 percento (nel 2011 era al 29,1 percento). Il potere di acquisto delle famiglie è calato nel 2012 di ben 4,8 punti percentuali, i consumi toccano il punto più basso dagli anni Novanta a oggi. Le persone in condizioni di deprivazione rasentano i 15 milioni. La fotografia è quella scattata dall’Annuario statistico diffuso dall’Istat relativo al 2012. La crisi non dà tregua ed è crisi che si somma a crisi. Non consola molto perciò il fatto che, sempre nel 2013, il deficit sia rientrato entro la soglia del 3 percento; il debito pubblico è cresciuto invece di sei punti percentuali, toccando quota 127 percento, e senza mettere un freno alle politiche di austerità che finora hanno orientato l’intervento pubblico sarà difficile riavviare un ciclo di crescita.
Occupati e non
La disoccupazione è aumentata del 30,2 percento nel 2012. Spiegano i ricercatori dell’Istituto nazionale di statistica che questo aumento è dovuto, in sei casi su dieci, ai lavoratori che hanno perso il lavoro e ne cercano uno nuovo, mentre negli altri casi si tratta di persone che prima erano inattive e poi hanno deciso di cercare un lavoro. Si tratta soprattutto di donne, e infatti l’occupazione femminile è l’unica che si muove in controtendenza, registrando una leggera crescita (110 mila unità in più rispetto al 2011). Questa crescita riguarda principalmente le donne ultracinquantenni, come conseguenza anche della recente riforma del sistema pensionistico, le donne immigrate occupate nei servizi alla famiglia, e le donne che appartengono alle famiglie di status più basso, soprattutto al Sud (per un’analisi dettagliata dell’occupazione femminile si veda www.ingenere.it/articoli/listat-italia-allingi-le-donne-corrono-al-lavoro). Più in generale, se si sommano le forze di lavoro potenziali (poco più di 3 milioni di persone) ai disoccupati (circa 3 milioni) si arriva a circa 6 milioni di persone che vorrebbero lavorare ma non lavorano. La riduzione dell’occupazione si accompagna poi a una sempre più marcata polarizzazione delle tipologie contrattuali: l’occupazione standard continua a diminuire, mentre aumentano gli occupati a tempo parziale, a tempo determinato e con contratti di collaborazione. Anche la crescita del part time (+9 percento nel 2012) ha riguardato solo, precisa l’Istat, la componente involontaria.
Non è un paese per giovani
Il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 29 anni è aumentato, tra il 2011 e il 2012, di quasi 5 punti percentuali; dal 2008 l’incremento è di dieci punti percentuali. Non solo: l’Italia ha la quota più alta in Europa (pari al 23,9 percento) di neet, i giovani che non studiano e non lavorano. Si tratta di oltre 2 milioni di giovani. Nel nostro paese, sottolinea l’Istat, il rendimento dell’investimento in istruzione risulta ancora basso, nonostante la laurea, molto più del diploma, stia costituendo una forma di assicurazione contro le crescenti difficoltà del mercato del lavoro. Inoltre, alcuni effetti della crisi sulle opportunità di sbocco dei laureati sembrano avere enfatizzato il ruolo dell’estrazione sociale che incrementa, a favore delle classi più alte, la probabilità di trovare lavoro e di ottenere una retribuzione più elevata.
Il calo dei consumi
La diminuzione del 2,4 percento del Pil è dovuta principalmente alla caduta della domanda interna. Il potere d’acquisto delle famiglie è crollato del 4,8 percento e, spiega l’Istat, si tratta di una caduta di intensità eccezionale che giunge dopo un quadriennio caratterizzato da un continuo declino. A questo andamento hanno contribuito soprattutto la forte riduzione del reddito da attività imprenditoriale e l’inasprimento del prelievo fiscale (la pressione fiscale infatti, nel 2012, si è attestata al 44 percento). Ha tenuto invece la domanda estera, tanto è vero che le esportazioni hanno visto una risalita di 2,3 punti percentuali. Crollano invece gli investimenti, che nel 2012 segnano un -8%.
Le famiglie in grave deprivazione
8 milioni di persone sono in condizioni di “grave deprivazione”. Si tratta, statisticamente, di persone che per esempio faticano a fare i conti con alcune spese essenziali, come il riscaldamento, che non possono garantirsi un pasto proteico ogni due giorni o che non hanno 800 euro per fare fronte a spese impreviste. In due anni le famiglie “gravemente deprivate” sono quasi raddoppiate (dal 6,9 percento del 2010 al 14,3 percento del 2012). Non solo: la “grave deprivazione materiale” comincia a interessare non solo gli individui con i redditi familiari più bassi ma anche coloro che disponevano di redditi più elevati, e approfondisce divario tra il Nord e il Sud Italia.
Le imprese e il potenziale di crescita
L’Annuario Istat ci consegna anche una mappatura inedita del sistema imprenditoriale del paese. L’Istituto di statistica ha classificato le imprese italiane sulla base di tre profili: dinamismo, proiezione estera e complessità di governance. Emerge dall’analisi che circa tre quarti delle imprese, rappresentative della metà dell’occupazione, mostrano deboli spinte alla crescita. L’Istat le chiama “ imprese di piccolo cabotaggio”, sono imprese attive nella manifattura tradizionale, hanno in media 5 addetti, sono a conduzione familiare, poco dinamiche e rivolte a un mercato locale. L’8 percento delle imprese sono “conservatrici”, ossia scarsamente dinamiche e poco aperte all’estero ma con un’organizzazione aziendale complessa, e un altro 8 percento è costituito da quelle che l’Istituto di statistica definisce “dinamiche tascabili”, imprese innovatrici, di dimensione medio piccola, molto attive sui mercati esteri e a bassa complessità organizzativa. Le imprese più dinamiche, “dinamiche spinte” nella classificazione statistica, sono appena il 4 percento del totale. Infine, meno dell’1 percento delle imprese è composto da “unità complesse”, ossia aziende medio grandi, attive sui mercati internazionali e a elevata complessità organizzativo gestionale.