Un basso livello di tassazione non significa maggior benessere per i cittadini. Al contrario, la qualità della vita delle persone è strettamente legata al peso delle entrate fiscali sul Pil
Le tasse e i tributi sul reddito sono da sempre terreno di scontro politico. Per alcuni (Nozick) all’estensione della redistribuzione nessuno dovrebbe ritrovarsi in una posizione peggiore di quella in cui sarebbe senza l’intervento dello Stato. Altri legano le imposte e le tasse a un servizio “corrispettivo” (J. Stiglitz, “Il ruolo economico dello stato”), cioè pago le tasse in cambio di servizi. Alcuni sottolineano il ruolo delle tasse per finanziarie i servizi che diversamente i cittadini dovrebbero comprarsi sul mercato a prezzi di mercato. Più recentemente il dibattito politico e sindacale assegna alle tasse e alle imposte, che non sono la stessa cosa, un ruolo spiccatamente redistributore, in questo caso a favore dei redditi bassi e del lavoro dipendente.
Andando oltre l’allocazione delle risorse e l’efficacia delle stesse, sui cui molti opinion makers hanno sottolineato i tanti (troppi) rischi della riduzione del prelievo fiscale, spesso si parla e si discute di fisco come se la struttura e organizzazione fosse estranea al sistema economico e ai principi maturati nel corso dell’ultimo secolo. Ai più sfugge che i tributi si sono sempre adattati ai modi di produzione e agli assetti patrimoniali emergenti dal sistema economico da un lato, oltre all’evoluzione del diritto che è diventato sempre più diritto positivo. Nel dibattito osservo troppa “approssimazione” e si assegna al fisco un ruolo “salvifico” che mal si concilia con il suo ruolo storico, cioè quello di fare pagare le tasse in misura proporzionale al reddito. Sono le spese pubbliche e l’erogazione di beni di merito che permette, più di altre misure, la crescita reale del reddito disponibile dei cittadini. In qualche modo i diritti positivi, cioè i servizi per tutti senza nessuna “corresponsione” individuale, hanno permesso lo sviluppo dell’attuale organizzazione economica. Diversamente dai luoghi comuni, minori tasse uguale maggiore sviluppo, un basso livello di tassazione non significa maggior benessere per i cittadini. Anzi, tanto più la società è complessa, tanto più è necessario adeguare non solo il livello del prelievo fiscale in generale, ma anche i presupposti di imposta. In qualche modo il livello e la qualità (alta) della vita dei cittadini è legata al livello e al target della tassazione e, più in generale, al peso delle entrate fiscali sul Pil. Mi rendo conto di sostenere delle tesi che sono in controtendenza all’opinione diffusa, ma tanto più è alta la pressione fiscale, tanto più è possibile soddisfare i diritti positivi, cioè quei diritti “presi sul serio”. Non diritti qualsiasi, ma diritti positivi che hanno come finalità la libertà dal bisogno dei cittadini. Sicuramente c’è anche il problema di tassare in modo uguale persone uguali, principio difficilissimo da realizzare ma su cui è possibile tentare ulteriori riflessioni, ma analizzando il peso delle entrate fiscali in Europa, non è difficile accorgersi della relazione diretta e proporzionale tra diritti positivi e prelievo fiscale. Dove esiste un’adeguata pressione fiscale si osserva un adeguato stato sociale e tassi di crescita mediamente più alti. L’alta pressione fiscale non è estranea al pensiero liberale, piuttosto è funzionale agli obiettivi che una società moderna vuole darsi (Lord Acton, Storia della libertà, 1884: “Il miglior criterio in base al quale giudicare se un paese è veramente libero è il grado di sicurezza che in esso godono le minoranze”.) Quindi il “dovere” di pagare le tasse ha le sue ragioni nella realizzazione di una società più giusta: “Se non si fosse strutturato il diritto positivo, quale situazione sociale avremmo oggi e di quale libertà godremmo se attraverso l’intervento regolatore non fosse promossa l’equità di quello che alcuni economisti chiamano lo scambio fiscale, e se non si fossero garantiti, insieme ai diritti proprietari, anche i cosiddetti diritti “presi sul serio”, cioè i diritti di libertà dal bisogno? (Franco Gallo, Le ragioni del fisco, etica e giustizia nella tassazione, Il mulino, 2007). Se la persona non è homo economicus ridotto a proprietà (A. Sen), ma un soggetto che vive nelle relazioni sociali, è perfettamente lecito tassarla per la sua capacità di realizzare reddito e relazioni legate alla società stessa. D’altra parte il mercato non potrebbe esistere senza altre istituzioni (Einaudi). Le tasse esistono non solo per risolvere un problema in particolare, piuttosto come un particolare esercizio di sovranità dei cittadini per soddisfare, attraverso la spesa pubblica, i diritti colletti positivi. Lo spartiacque è il target del tributo e della spesa pubblica. Quando si sostiene la necessità di ridurre le tasse su alcune categorie di contribuenti occorre prestare molta attenzione. Nel pensiero liberista i tributi sono visti come uno strumento di finanziamento della spesa per la sicurezza e la protezione dei diritti proprietari che si rifanno, in genere, alle cosiddette libertà negative, ma trascura, a differenza del pensiero liberale, le libertà positive civili e sociali, cioè le libertà fruibili da ciascun individuo nell’uguaglianza, che trovano il loro limite nella libertà degli altri e, soprattutto, non riducono l’autorità dello stato legandola “all’autorità” dei cittadini. Se si ritiene che la libertà si espande in senso positivo nella società solo se la si associa a obiettivi di uguaglianza, il tributo nelle moderne economie è lo strumento più idoneo per conseguire il fine egualitario. In questo modo i tributi non possono più essere letti con il criterio soggettivo, piuttosto devono essere considerati parte del moderno sistema di diritti proprietari e dei diritti positivi, senza limitazioni di nessuna natura nella pressione fiscale (art.53 della Costituzione), ovvero il legislatore è legittimato ad allargare l’area della contribuzione alle spese pubbliche e sociali, consentendogli di selezionare i presupposti di imposta in ragione della maggiore articolazione della realtà economica.
C’è un punto che sfugge a troppi opinion makers. Il mondo è velocemente cambiato in questi ultimi 20 anni. È cambiato il paradigma tecnologico nell’accumulazione del capitale e l’intervento pubblico è stato costretto ad adeguarsi. In qualche modo gli insegnamenti di Musgrave si devono aggiornare e adeguare alla “rivoluzione” tecnologica. Il sapere e il saper fare, assieme alla conoscenza, sono la frontiera della pubblica amministrazione. Lo spostamento delle maestranze e della struttura produttiva dai settori maturi a quelli a maggior contenuto tecnologico deve essere “guidato” dall’azione pubblica attraverso il rafforzamento della conoscenza e lo sviluppo di un’adeguata domanda (cognitiva). Questa sembra essere la policy più adeguata per rinnovare l’azione pubblica e probabilmente, in prospettiva, per aumentare il salario reale dei lavoratori.