Referendum Bologna/1. Il 26 maggio il voto sulle scuole dell’infanzia a Bologna. Le ragioni per spostare tutte le risorse alle scuole statali e comunali, in una città nella quale nel 2012 423 bambini sono rimasti fuori dalle aule
Da qualche settimana la campagna per il referendum consultivo sul finanziamento pubblico alle scuole paritarie private prevista a Bologna per il 26 maggio è entrata nel vivo. Promosso da 400 genitori e cittadini che hanno denunciato il numero crescente di bambini esclusi dalla scuola pubblica per l’infanzia, il referendum nasce allo scopo di chiedere alla cittadinanza quale utilizzo delle risorse finanziarie comunali ritenga più idoneo per assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola dell’infanzia: se le scuole comunali e statali (quesito A) oppure le scuole d’infanzia paritarie private (quesito B). Questa domanda, apparentemente semplice, da molte settimane accende il dibattito locale evidenziando l’esistenza di due schieramenti contrapposti. Da un lato il Pd, il centrodestra, la Curia, i vertici di Cgil, Cisl e Uil, e la Fism – Federazione Italiana Scuole Materne (cattoliche). Dall’altro il Movimento 5 Stelle, i consiglieri di Sel, la Flc-Cgil e la Fiom, e un ampio numero di soggetti collettivi, associazioni di cittadini e genitori autorganizzati. Insomma, una composizione ampia e una contrapposizione netta, che ha spinto Wu Ming a evocare la lotta di Davide contro Golia, fionde contro carri armati o ancorpiù, un “attacco concentrico al Comitato Art. 33”.
Perché tale schieramento di forze contrarie, e qual è il “non detto” del referendum? Questa è la domanda cui urge rispondere. Il referendum sui finanziamenti pubblici alle scuole paritarie private nasce da un problema preciso: a Bologna, a partire dalla legge sulla parità scolastica, i finanziamenti alle scuole private sono cresciuti di anno in anno sino a superare il milione di euro. Di converso, è cresciuto ogni anno il numero di bambini esclusi dalle scuole d’infanzia comunali e statali, arrivando a giugno del 2012 a 423 bambini in lista d’attesa. Stando ai dati della Delibera comunale del 9 ottobre 2012, per eliminare il problema dell’esclusione scolastica servirebbero 12 nuove sezioni a un costo di 90 mila euro a sezione, una cifra totale che corrisponde quasi esattamente alla cifra che al momento viene data alle scuole private. Il quesito referendario, pertanto, con valore consultivo e non abrogativo, chiede alla cittadinanza dove preferisca allocare le risorse pubbliche, sapendo che restituire alla scuola pubblica le risorse attualmente destinate alle scuole paritarie consentirebbe di far fronte alle esigenze di tutte le famiglie.
La consultazione referendaria è stata accolta con nervosismo. A partire dal sindaco Merola, che ha deciso – non senza un certa impudenza – di abdicare il proprio ruolo di garante per farsi promotore attivo delle ragioni del Comitato anti-referendario, indossando così, a un tempo, “la maglia di arbitro e quella di giocatore”, sino all’intervento diretto della Curia, le affermazioni che accusano i referendari di “attacco radical chic alla scuola privata”, o di porre “a repentaglio la possibilità di assicurare a molti bambini la frequenza della scuola dell’Infanzia”, è divenuto presto evidente che il referendum tocca alcuni nodi nevralgici. Il primo è il diritto a finanziare con denaro pubblico la scuola paritaria privata, quand’anche questo avvenga a detrimento del servizio pubblico e dello stesso diritto all’istruzione, come accade per l’appunto a Bologna. Il secondo è la legittimità di un’alleanza, la stessa alleanza tra la Curia, i privati e il Pd che le recenti elezioni hanno messo in discussione e che, negli ultimi trent’anni, ha consentito di conciliare gli interessi privati e la Chiesa cattolica, compensando le politiche di privatizzazione e taglio alla scuola pubblica con la reintroduzione della scuola confessionale come modello d’istruzione universale. Il terzo, infine, è una preoccupazione ancora più fondata: il timore che, su questo tema, “si crei una reazione a catena in tutta Italia” e che altre città utilizzino l’arma referendaria per mettere in discussione dal basso le politiche di taglio e gestione privata che da anni governano l’istruzione.
In questi giorni, questi temi sono spazio di conflitto giuridico e politico. Il diritto a finanziare con denaro pubblico la scuola paritaria privata viene descritto, dagli intellettuali cattolici del Pd, come espressione del “principio costituzionale della libertà di scelta in materia educativa da parte dei genitori”. La questione, come sappiamo, è complessa, e chiama in causa la sussidiarietà e l’interpretazione dell’Articolo 33 – al centro di un incessante dibattito da sessant’anni. Fatto sta che mentre gli intellettuali del Pd sostengono l’“irrinunciabilità” dei finanziamenti pubblici alla scuola privati, il comitato referendario parte dai dati.
Nel 2012, 423 bambini sono rimasti senza possibilità d’accesso a scuola, e nonostante il Comune abbia improvvisato soluzioni d’emergenza 103 di loro sono rimasti a casa. E poiché a Bologna 25 su 27 scuole paritarie sono d’ispirazione cattolica, molte famiglie escluse, in nome della libertà di scelta, sono state costrette a iscrivere i loro figli a una scuola confessionale. È evidente che qui si intrecciano molte questioni: dai tagli al finanziamento pubblico dell’istruzione – l’Ocse ci dice che l’Italia è il paese che più ha scaricato sull’istruzione i costi della crisi. All’ingerenza della Chiesa nella formazione pubblica, con tanto di gestione privata dei programmi di studio e della selezione del personale docente. Infine, la stessa strategia del sindaco Merola e del Pd: il tentativo di soprassedere a entrambe le questioni facendo “di due mali un bene”, sino a utilizzare la scure dell’austerità come legittimazione per la sostituzione del pubblico con il privato, e la sussidiarietà come legittimazione per la sostituzione della scuola laica con la scuola confessionale.
Ora, manca un mese al referendum ed evidentemente l’iniziativa referendaria sta diventando una questione nazionale. Il Pd ha scelto di percorrere, non senza rischi, la stessa linea politica che ha caratterizzato la sua campagna elettorale: affermare l’irrinunciabilità delle relazioni con i privati, a prescindere dal loro impatto sui diritti. Diceva l’on. Preti nell’Assemblea Costituente del 17 aprile 1947 [1]: «(s)arebbe un paradosso che lo Stato, che non ha nemmeno abbastanza denaro per le proprie scuole, dovesse in qualche modo finanziare delle scuole non statali». Il problema è precisamente questo. Mentre il referendum mette in evidenza le contraddizioni e i conflitti d’interesse della politica, a Bologna si fanno dunque sempre più concreti i timori dei conservatori: sia mai che dopo i tagli, l’austerità e la lunga storia d’amore tra la politica, la Curia e i privati, l’arma referendaria produca una reazione a catena con cui riprensare finalmente l’istruzione e i saperi dal basso.
[1] Seduta del 17 aprile 1947, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Camera dei deputati, Roma, 1970, vol. II, 952