Ai minimi prima della campagna elettorale, è salito del 60% col ritorno del Capo, da metà febbraio ha ripreso a scendere. L’altalena in borsa di Mediaset riflette le scommesse sui successi politici di B. Ma nell’economia reale le cose vanno male per tutte le società del gruppo
A metà novembre, quando l’Italia era immersa in un clima di pre-campagna elettorale e quando l’attenzione mediatica era concentrata sulle primarie del centro-sinistra da un lato, e sugli effetti delle misure adottate dal governo Monti dall’altro, il titolo Mediaset valeva circa 1,2 euro, il prezzo più basso mai raggiunto dalla sua quotazione in borsa nel 1996.
Nelle otto settimane successive, mentre Silvio Berlusconi ha costruito la propria campagna elettorale, presentandosi in quasi tutte le trasmissioni televisive, il prezzo del titolo è salito di oltre il 60 per cento, proprio in corrispondenza con la crescita nei sondaggi del partito del suo principale azionista. Nella settimana immediatamente precedente al voto del 24 e 25 febbraio, però, il titolo ha perso nuovamente circa il 20 per cento e il calo si è accentuato dopo lo spoglio elettorale.
Finanza impazzita? Probabilmente no. Anzi, è plausibile che l’andamento di borsa del titolo Mediaset sia stato influenzato dalla speculazione, indirizzata dalle “voci” sulle attese elettorali. Infatti, da un lato la variazione del prezzo del titolo può essere spiegata solo in misura contenuta dall’andamento generale del mercato e in secondo luogo l’andamento specifico del titolo in questione non pare essere stato influenzato da informazioni aziendali o di mercato capaci di modificare in pochissime settimane le aspettative di reddito della società, che è colpita dalla più grave crisi di mercato dalla sua costituzione.
Come si può spiegare allora la quotazione del titolo Mediaset negli ultimi mesi?
Secondo una prima ipotesi, gli investitori di borsa potrebbero aver “scommesso”, nella fase pre-elettorale, sulla capacità dell’uomo politico di tutelare il proprio interesse privato – quello della sua azienda – a scapito di quello pubblico – quello dell’Italia immersa in una drammatica crisi economica –, mentre nella fase precedente alle elezioni e poi in quella post-elettorale gli investitori avrebbero “puntato”, all’opposto, sull’impossibilità di riuscirci.
Dopo vent’anni, anche la finanza ci dice che esiste un conflitto tra l’interesse dell’uomo politico, che dovrebbe tutelare quello generale dei cittadini, e l’interesse personale del concessionario di licenze pubbliche!
Se questa fosse la verità, non dovrebbero esserci dubbi sull’impossibilità di proclamare nuovamente eletto deputato Silvio Berlusconi, come chiesto ad esempio dalla petizione on-line promossa da Micromega, che prende a base della richiesta la legge 361 del 1957 sulla incandidabilità dei concessionari di licenze pubbliche (in questo caso le frequenze televisive).
Quello che si può notare è che, indipendentemente dall’andamento del titolo di borsa durante la competizione elettorale, la bassa quotazione del titolo Mediaset rispecchia una situazione commerciale ed economica di seria difficoltà: in primo luogo, il calo dello share, in atto da un decennio, si è intensificato con il recente passaggio al digitale, sia per quanto riguarda l’intera giornata sia per le ore del dopo cena, il cd prime time; i ricavi pubblicitari, poi, complice anche la crisi, sono drammaticamente scesi (-14,7% nei primi nove mesi del 2012). Senza considerare il fatto che la tv a pagamento Mediaset premium non è mai davvero decollata e le previsioni di raggiungere il pareggio (break-even) sono state posticipate di anno in anno. Comprensibilmente, da qualche tempo circolano voci di cessione del comparto, ma in questa fase non sembra facile trovare un acquirente.
Lo stesso Berlusconi ha dovuto preannunciare che l’esercizio 2012 si è chiuso in perdita per Mediaset: nei primi nove mesi dello scorso anno il deficit si è attestato a 45 milioni di euro. Le prospettive di un risanamento economico dell’azienda sono legate all’efficacia dei programmati interventi di ristrutturazione con tagli dei costi e del personale.
Ma non è solo Mediaset a soffrire fra le società del gruppo che fa capo a Silvio Berlusconi: nel 2011, la capogruppo Fininvest ha versato 560 milioni di euro alla Cir in esito alla famosa sentenza della Corte di appello di Milano iscrivendo il pagamento come credito nei confronti della controparte. Mondadori, che di recente ha sostituito il suo amministratore delegato, mantiene iscritte in bilancio da molti anni attività immateriali per circa 1 miliardo di euro, che sono ampiamente superiori rispetto al patrimonio netto contabile, e il cui valore è soggetto a procedura di verifica annuale sulla base di ipotesi di redditività prospettica non soggette a riscontro consuntivo. Una parte di queste attività sono state registrate in occasione dell’acquisto della casa editrice Silvio Berlusconi Editore, le cui principali testate (Sorrisi e canzoni TV e Chi) hanno registrato un calo nella diffusione sul mercato. Nemmeno la joint venture con il San Raffaele di Milano, la società Molmed, ha finora prodotto i risultati sperati e il corso si mantiene su prezzi inferiori a quelli dell’investimento iniziale.
Dal punto di vista economico, in ogni caso, la maggiore sofferenza riguarda il Milan che ha un patrimonio netto consolidato fortemente negativo e ogni anno deve ricorrere ad operazioni di ricapitalizzazione da parte della capogruppo.
Le numerose difficoltà del gruppo Fininvest sembrerebbero essere arrivate ad intaccare la ricchezza personale di Berlusconi, dimezzatasi tra il 2005 e il 2013 secondo i dati della rivista Forbes: in sette anni l’ex presidente del Consiglio è scivolato dal primo al settimo posto nella classifica degli italiani più ricchi e dal venticinquesimo addirittura al centonovantaseiesimo posto nella classifica mondiale. La situazione del gruppo Fininvest richiederebbe che parte di questa ricchezza fosse tempestivamente utilizzata per portare nuove risorse finanziarie al gruppo e per provare ad avviare una stagione di rilancio, che interrompa l’attuale progressivo declino.