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La teoria economica e i giovani “choosy”

Dietro la battuta sui giovani “choosy” c’è la teoria economica dominante che vede la disoccupazione come strumento per tenere sotto controllo lavoratori e salari

L’ infelice dichiarazione del ministro Fornero nel consigliare ai giovani ad essere meno “choosy” nella scelta del lavoro, può sembrare l’uscita azzardata e un po’ ingenua di una tecnica. La verità è che dietro quell’espressione, economicamente parlando, c’è molto di più di una semplice uscita infelice, che bisogna approfondire andando oltre la satira che si è scatenata su internet. Allo stesso modo le raccomandazioni di rigore – al festival della famiglia – del premier Monti sul gestire i bilanci dello stato come il buon padre di famiglia e il fare sacrifici per risanare lo stato delle nostre finanze non sono argomentazioni così casuali.

Che cosa significa accettare lavori non in linea con il proprio profilo professionale e a salari di mercato? La risposta sta nella critica alla teoria neoclassica della distribuzione del reddito e al perché la disoccupazione è necessaria. Riprendiamo qui gli argomenti sviluppati dal prof. Fabio Petri, dell’Università di Siena (1), secondo il quale la ragione per cui la proprietà privata dei mezzi di produzione frutta un reddito è fondamentalmente simile alla ragione per cui il controllo dell’accesso alla terra fruttava un reddito ai signori feudali. Il monopolio collettivo della terra (e delle armi) da parte dei signori feudali permetteva loro di esigere da coloni e servi una parte del prodotto del loro lavoro in cambio del diritto a trarre la sussistenza dalla terra. Analogamente, nel capitalismo il lavoratore o accetta di ricevere un salario che lascia ai proprietari dei mezzi di produzione parte del prodotto, o non può produrre, per via della necessità di possedere già capitale per avere accesso ai mezzi di produzione, il che si traduce in un monopolio collettivo dei capitalisti sulla possibilità di produrre. Ma nel capitalismo la cosa è resa meno trasparente per via della mancanza di esplicita coercizione: al contrario del servo della gleba, legato per nascita alla terra, il proletario (e il precario) è teoricamente libero di accettare o rifiutare di lavorare per un capitalista; ma se non accetta, corre il rischio di fare la fame, rischio mantenuto dall’esistenza di disoccupazione, che la classe dei capitalisti si preoccupa di ricreare con interventi governativi quando il funzionamento spontaneo del mercato non basta. Come il signore feudale è costretto ad alleggerire il prelievo di lavoro o di prodotto sui servi della gleba quando questi diventano più minacciosi (magari per via di un predicatore che risveglia la loro indignazione), così i rapporti di forza tra capitalisti e lavoratori cambiano a seconda della disoccupazione, e dell’esasperazione e unità dei lavoratori. Coalizioni tra lavoratori possono impedire al salario di diminuire in presenza di disoccupazione, e impedire così che la disoccupazione venga assorbita: la disoccupazione sarebbe allora colpa degli stessi lavoratori. E si apre la strada all’argomento alla Friedman che se i disoccupati fossero involontari (cioè disposti a lavorare a un salario inferiore a quello corrente), essi troverebbero il modo di manifestare la loro disponibilità a lavorare a un salario inferiore a quello di mercato (choosy!), i sindacati non riuscirebbero a impedire una diminuzione dei salari, e dunque la disoccupazione (in eccesso di quella frizionale inevitabile) deve essere necessariamente volontaria se non fa diminuire i salari: argomento usato per sostenere che la disoccupazione osservata è o frizionale, o una libera scelta dei lavoratori che preferiscono continuare a cercare occasioni di impiego a un salario più elevato di quello di mercato.

Non è facile comprendere tale posizione: un più elevato livello della produzione e dell’occupazione è favorevole infatti non soltanto ai lavoratori ma anche ai capitalisti, poiché i loro profitti si accrescono. D’altra parte la politica di pieno impiego, basata sulle spese statali finanziate in deficit, non incide negativamente sui profitti in quanto non richiede l’istituzione di nuove imposte.

Arriviamo così alle argomentazioni di Kalecki e degli aspetti politici del pieno impiego tramite l’espansione della spesa pubblica finanziata col debito pubblico (2). L’avversione del grande capitale al mantenimento del pieno impiego tramite le spese statali ha a questo proposito un’importanza fondamentale. Perché i capitani d’industria non accolgono con gioia la “ripresa artificiale” che lo Stato potrebbe offrire loro intervenendo in deficit a finanziare il pieno impiego per la ripresa?

Le ragioni dell’opposizione dei capitalisti al pieno impiego realizzato dal governo tramite la spesa pubblica vengono suddivise da Kalecki in tre categorie: 1) l’avversione all’ingerenza dello Stato nella questione dell’occupazione in genere; 2) l’avversione nei confronti della direzione delle spese pubbliche (come gli investimenti pubblici e le sovvenzioni del consumo); 3) l’avversione alle trasformazioni sociali e politiche derivanti dal mantenimento costante del pieno impiego.

Quello che conta primariamente per il capitale non è però l’ammontare dei profitti, bensì il saggio del profitto. Il singolo capitalista, se sufficientemente abile o fortunato, può sempre assicurarsi maggiori profitti ampliando il suo capitale a spese di altri. Quel che conta per lui, come componente di una classe, è l’ammontare di profitti che egli può trarre da un capitale dato vale a dire, il saggio del profitto ¾ proprio come gli interessi che la banca offre su un deposito bancario sono significativi per il depositante soprattutto quando confrontati con il capitale depositato, vale a dire calcolando il saggio di interesse. Noi sappiamo dalla teoria economica che quel saggio di profitto diminuirà sempre quando il salario reale aumenta; un aumento dei salari, associato a politiche di pieno impiego, provoca un saggio di profitto minore di quello altrimenti ottenibile, c’è quindi un conflitto e non una coincidenza di interessi, qualunque possa poi essere l’effetto di alti salari sull’ammontare della produzione complessiva.

Nel sistema del laissez faire il livello dell’occupazione dipende in larga misura dalla così detta atmosfera di fiducia. Quando questa si deteriora, gli investimenti si riducono, cosa che porta a un declino della produzione e dell’occupazione: questo assicura ai capitalisti un controllo automatico sulla politica governativa. Ma una volta che il governo abbia imparato ad accrescere artificialmente l’occupazione tramite le proprie spese, allora tale “apparato di controllo” perde la sua efficacia, “pericolo” che si è voluto evitare con l’introduzione in Costituzione del pareggio di bilancio: per questo il deficit del bilancio, necessario per condurre l’intervento statale, deve venir considerato come pericoloso.

Definita la base concettuale andiamo a vedere come si realizza tutto questo. Paolo Barnard ci chiarisce in maniera precisa il concetto: Friedman lavorò sulla minaccia dell’inflazione e la rese ancora più inquietante (3). Prese in considerazione la teoria della “Curva di Phillips” che sostiene che se si abbassa la disoccupazione si ottiene un aumento proporzionale dell’inflazione (più stipendi che circolano, più soldi nel sistema=inflazione). Friedman affermò che quella di Phillips era una predizione troppo benigna: l’inflazione non solo sarebbe seguita a un aumento di occupazione, ma sarebbe aumentata in proporzione molto più elevata col rischio di finire fuori controllo. Questa sua idea apparve catastrofica ai politici, Friedman di conseguenza sentenziò che un ‘naturale’ livello di disoccupazione doveva necessariamente esistere per evitare tale disastro. Ma anche con la piena occupazione l’inflazione si tiene sotto controllo proprio per l’aumento della produttività che la maggior forza lavoro crea.

Definito questo quadro, esiste la possibilità di un capitalismo collaborativo? In un articolo del 2004 (4) gli economisti Cavalieri, Garegnani e Lucii mostrano come dal secondo dopoguerra fin verso gli anni settanta molti paesi (Regno Unito, Francia, Germania, Usa e Italia) abbiano applicato politiche di pieno impiego e aumenti dei salari. Significativo che l’abbandono delle politiche di pieno impiego prenda avvio pochi anni dopo i movimenti sociali di fine anni ’60, che gli autori riconducono anche all’ingresso nei luoghi di lavoro di una nuova generazione che portava con sé le sicurezze generate da due decenni di piena occupazione. La forbice che si apre così tra i crescenti aumenti dei salari monetari e i decrescenti aumenti dei salari reali nel passare dal 1968-72 al 1973-82, è in realtà un indice dell’esito che stava maturando nel violento scontro economico che chiude la cosiddetta “epoca d’oro” del capitalismo.

Così dai livelli di piena occupazione dominanti fino a circa il 1970, la disoccupazione aumenta progressivamente a partire dal 1973, quando l’aumento del prezzo del petrolio giustifica l’introduzione di consistenti politiche deflazionistiche: essa è l’arma che consente la restaurazione della disoccupazione quale normale meccanismo di controllo economico e sociale, con quanto ne segue per le istituzioni del mercato del lavoro.

Si apre però un problema che gli autori così definiscono “come e perché i rapporti di forza favorevoli alle classi lavoratrici che avevano imposto il compromesso nel dopoguerra, si sono modificati nel trentennio successivo così che, al momento della prova di forza degli anni Settanta e Ottanta, il suo abbandono avviene nella direzione di una restaurazione del potere capitalistico tradizionale, almeno per quanto riguarda il meccanismo base della disoccupazione, e non invece nella direzione di una accresciuta partecipazione delle classi lavoratrici all’effettivo potere nella società, e quindi di un maggiore controllo pubblico dell’economia che consentisse il mantenimento della piena occupazione unitamente alle misure redistributive favorevoli a tali classi, la cui richiesta aveva in sostanza motivato l’esplosione salariale?”

La risposta consiste nel maggior grado di consenso (o minor grado di opposizione) che l’ordinamento economico sociale esistente era riuscito ad acquisire tra le classi lavoratrici proprio grazie ai decenni di politiche di piena occupazione. Sicuramente non è da sottovalutare allo stesso tempo la fragilità di questo consenso, rivelata anche dall’anticapitalismo del 1968, ma questo consenso è esistito, ed esiste, sia nelle dirigenze politiche e sindacali della sinistra sia, in modo più passivo, alla base di queste organizzazioni. A causa di questo maggior consenso, le dirigenze e larga parte della loro base hanno sostanzialmente accettato – o comunque non si sono opposte a fondo – le politiche che, sotto la veste del controllo dell’inflazione, hanno portato alla restaurazione del tradizionale meccanismo di controllo economico-sociale costituito dalla disoccupazione. Così le decisioni chiave sono oggi prese in sedi sempre più lontane (ideologicamente e fisicamente) dai cittadini, con le tristi conseguenze che conosciamo.

Il prendere coscienza delle problematiche economiche alla base dei meccanismi che determinano le decisioni che incidono sulla nostra vita, il trovare una rappresentanza unitaria che esca fuori dai vecchi schemi ormai obsoleti e il mettere in discussione teorie economiche mainstream rappresenta una nuova forma di resistenza. Per chiuderla con Deleuze “non è il caso né di piangere né di sperare, si tratta piuttosto di cercare nuove armi.”

1 L’intervento completo del Prof. Fabio Petri lo trovate a questo link. http://www.econ-pol.unisi.it/petr/PetriEconomiaMarxianaPontedera7.doc 2 per il testo di Kalecki questo il link di riferimento http://www.econ-pol.unisi.it/petri/Kalecki.doc 3 per il testo integrale di Barnard questo il link di riferimento http://www.paolobarnard.info/docs/ilpiugrandecrimine2011.pdf 4 per il testo integrale questo il link http://www.econ-pol.unisi.it/petri/CavalieriGaregnaniLucii.doc