Le nuove regole non riducono i contratti atipici, ma li rendono più costosi. In una situazione di crisi come l’attuale, è molto probabile che il maggior costo sia pagato solo dai lavoratori stessi. O, peggio, che il loro lavoro sia tagliato
Numerosi ed appassionati commenti sono stati scritti nelle ultime settimane sulla riforma del mercato del lavoro. Il tema riveste senza dubbio forte rilevanza economica e sociale e rappresenta una sorta di “cartina di tornasole” delle capacità tecniche ed anche dell’indirizzo politico dell’attuale governo Monti.
Un osservatore potrebbe ben rilevare come in estrema sintesi vi sia una idea alla base della riforma, ovvero che alla estensione delle tutele e dei diritti per alcuni debba corrispondere una riduzione delle tutele e dei diritti per altri, presentato come un necessario scambio generazionale; far pagare ai padri per favorire i figli. Non adottiamo però questa linea per la nostra critica, che potrebbe, e secondo alcuni indubbiamente è, una linea più politica che tecnica, benché le due sfere siano difficilmente separabili in economia, ed in particolare in tema di lavoro.
Semmai, intendiamo muovere alcune critiche interne alle proposte di riforma. Ci concentriamo qui su un aspetto, quello della riduzione dell’abuso di rapporti di lavoro flessibili ed incentivazione del rapporto subordinato, mentre non affrontiamo altre questioni quali quelle della revisione degli ammortizzatori sociali e della riduzione dei costi di licenziamento individuale, che saranno oggetto di esame in un commento che uscirà più avanti per Sbilanciamoci.
Anticipiamo tuttavia che secondo noi la riforma prospettata non si presenta come un intervento organico sul mercato del lavoro, nonostante venga presentata come tale. Non fornisce risposte adeguate alla questione della precarietà del lavoro da un lato, sia sul versante dei rapporti di lavoro che su quello delle garanzie di un reddito in stato di disoccupazione, e neppure fornisce risposte convincenti sul tema delle uscite, modificando l’articolo 18 in modo ancora improprio. Sia le linee guida che il disegno di legge non lasciano intravvedere un progetto per un “nuovo assetto” del mercato del lavoro, semmai una più semplice “manutenzione” del suo attuale funzionamento. Ciò, nonostante che anche in parlamento siano state presentate da tempo proposte legislative articolate volte a ridisegnare ex-novo le regole.
Concentriamoci ora sulla questione delle incentivazione del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato rispetto al contratto di lavoro, anzi alle numerosissime tipologie di rapporti di lavoro differenti da questo ma quasi tutte caratterizzate da quella flessibilità che viene interpretata, per usare le stesse parole della ministra Fornero, come “cattiva” flessibilità, ovvero precarietà. La strada che poteva essere imboccata inizialmente perché piuttosto richiesta sia dagli operatori che gestiscono le politiche attive del lavoro, sia dalle organizzazioni di rappresentanza degli interessi, sindacati per i lavoratori ma anche si noti associazioni datoriali per le imprese, è stata presto accantonata, cioè quella della eliminazione di varie modalità contrattuali “atipiche” delle oltre 40 esistenti a seguito delle varie opzioni introdotte da governi di centro-sinistra e soprattutto di centro-destra.
L’opzione seguita è stata invece diversa, quella di intervenire su alcune specifiche tipologie contrattuali per renderle più complesse nella gestione e più costose per l’impresa, accrescendo i vincoli e gli oneri previdenziali e contributivi.
Sul piano amministrativo, per varie tipologie contrattuali, subordinato e parasubordinato, vengono introdotte norme formali tese a disincentivarne l’uso improprio, applicando nuove pratiche amministrative più complesse per contratti a tempo determinato, contratti di inserimento, apprendistato, contratti a tempo parziale, contratti a chiamata – lavoro intermittente, lavoro a progetto, lavoro accessorio, tirocini formativi, associazione in partecipazione con apporto di lavoro; in vari casi una valutazione della potenziale efficacia delle misure dipende dall’operare degli organi di controllo che saranno tenuti a verificare l’applicazione corretta delle nuove norme medesime. Per le partite Iva, prestazioni in regime di lavoro autonomo, in particolare si realizza una moratoria di un anno, per cui le modifiche entreranno in vigore non immediatamente: l’esigenza di portare allo scoperto le false partite Iva si è scontrata con l’esigenza di preservare senza penalizzazioni le autentiche partite Iva, e tra le due esigenze ha prevalso la seconda. Nel caso in cui questa tipologia di prestazione venga riconosciuta come rapporto di lavoro subordinato, essa deve essere trasformata in collaborazione coordinata e continuativa, e non in rapporto subordinato. Inoltre, per i contratti a termine si prevede la conversione automatica in rapporti di lavoro subordinato dopo il 36° mese, procedura che però è già prevista da normativa esistente come è stato fatto notare da alcuni commentatori. Infine sull’apprendistato, la riforma tende ad accrescerne l’estensione, e legare la sua attivazione a precedenti stabilizzazioni; tuttavia non prevede necessariamente che alla fine del periodo vi sia la stabilizzazione, mentre consente il licenziamento senza indennizzo. E’ noto inoltre che questo tipo di contratto, su cui molta enfasi è stata posta nell’ambito del confronto tra le parti sociali considerandolo come contratto di inserimento privilegiato, non porta soluzione alla questione del precariato in quanto si applica a lavoratori che hanno al massimo 29 anni di età, mentre ben più elevata (sopra i 40 anni) è l’età che possono raggiungere i lavoratori precari, statistiche alla mano.
Sul piano dei costi, si interviene accrescendo l’onere dei contributi previdenziali. È noto come la letteratura economica di economia del lavoro suggerisca che la flessibilità deve essere pagata, ovvero che i rapporti flessibili debbano prevedere un onere aggiuntivo rispetto a quelli a tempo indeterminato in modo tale che i secondi mantengano la loro competitività rispetto ai primi. In caso diverso i rapporti flessibili godrebbero del vantaggio di una maggiore flessibilità e di un minore costo, e quindi sarebbero preferiti dall’impresa rispetto a quelli rigidi più costosi. Ed infatti è proprio quello che accade in Italia, dove la flessibilità l’impresa non la paga. Dato l’obiettivo dichiarato di preservare gli usi virtuosi della flessibilità e limitarne gli usi impropri e distorsivi, le linee guida approvate dal consiglio dei ministri del 23 marzo 2012 e divenute proposte legislative nel ddl del 5 aprile 2012 prevedono per i contratti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato (fatte alcune eccezioni, quali i contratti di apprendistato) un accresciuto costo contributivo dell’1,4%, destinato al finanziamento del nuovo istituto ASpI per l’assicurazione di un reddito in stato di disoccupazione, ed una rimodulazione delle modalità temporali di utilizzo di tali forme contrattuali al fine dichiarato di ridurne il reiterato utilizzo.
Ora si possono presentare due effetti di tale nuova norma: (1) la percentuale di costo aggiuntivo non è tale da disincentivare tale forma contrattuale, per cui rimane vantaggiosa in termini relativi e verrà di norma preferita rispetto a quella del rapporto subordinato; (2) il costo è invece significativo e può condurre ad effetti significativi. Tali effetti possono essere i seguenti. Anzitutto, (2a) in presenza di un mercato del lavoro in crisi, come è da vari anni in crisi il mercato del lavoro italiano per carenza di domanda di lavoro, si assiste non tanto ad una trasformazione di tali rapporti flessibili in rapporti subordinati, bensì alla cessazione e non rinnovo del rapporto di lavoro flessibile. Si potrebbe osservare che in tal caso i lavoratori verrebbero coperti (parzialmente) dal nuovo istituto che la tassa contributiva va comunque a finanziare, l’ASpI, se non fosse che l’attivazione di tale istituto è rinviata a pieno regime nel 2017 e parzialmente nel 2013, mentre la dissuasione delle forme improprie di flessibilità partono da quando la norma diventa legge, per cui il lavoratore flessibile rimane scoperto (o parzialmente coperto) da qualsiasi integrazione al reddito prevista dalla riforma. Inoltre, vi è una possibile variante dell’effetto negativo sopra indicato: in assenza di una norma che stabilisca un minimo salariale nei casi in cui i contratti nazionali di lavoro non si applichino al lavoro flessibile, (2b) le imprese potrebbero trasferire sulla retribuzione del lavoro il maggiore onere contributivo, riducendo il salario al lavoratore flessibile, per cui questo pagherebbe sotto forma di riduzione salariale netta (a parità della lorda) il costo aggiuntivo caricato sull’impresa ed associato al suo stato occupazionale. Si fa anche notare che il vero differenziale che marca il vantaggio del rapporto flessibile sul rapporto subordinato è costituito dalla retribuzione netta del lavoratore che è significativamente più bassa per la prima tipologia. Qui sarebbe necessario intervenire, con una norma sui minimi salariali, che regoli le retribuzioni di tali lavoratori che non sono coperti da contratti collettivi di lavoro. Che prevalga l’effetto (2a) oppure (2b) dipende dalla sensibilità (ovvero elasticità) della offerta di lavoro al salario: se il provvedimento risulta efficace, si potrebbe escludere la rilevanza dell’effetto (1), ma si ricade nel rischio dell’effetto (2a) oppure (2b).
La stima se possa prevalere la situazione (1) oppure la (2a-2b) non è certo facile; comunque la riforma prevede che si realizzi la situazione (3), ovvero che i costi aggiuntivi per la flessibilità siano significati ma non eccessivi, per cui rapporti flessibili verrebbero trasformati in rapporti subordinati (anche se le previsioni di domanda di lavoro non fanno certo pensare che ciò sia un evento molto probabile: ricordiamo al lettore non solo le rose di Monti, ma anche le spine di Passera di questi giorni, e soprattutto le stime di recessione per tutto il 2012 da parte dell’Ocse ed anche di Confindustria, oltre che dello stesso governo). Vorremmo anche ricordare che il governo non sembra sempre stimare correttamente gli effetti dei suoi provvedimenti: vale il caso della riforma pensionistica di dicembre e del caso degli “esodati” che avrebbero dovuto essere inizialmente un numero limitato a 35.000 ed invece ora si contabilizzano – secondo alcune fonti sindacali – a circa 350.000 (ex-)lavoratori scoperti da reddito da lavoro e da pensione, tanto che si dovrà aspettare giugno 2012 per avere certezza di un qualche provvedimento che (parzialmente) sani questa situazione, come annunciato dalla ministra Elsa Fornero.
Un’altra soluzione sarebbe stata possibile? Esiste sempre una alternativa in verità, e se non esiste occorre crearla od almeno ricercarla. In questo caso, dato che l’obiettivo non è tanto quello di tutelare il lavoratore flessibile nel caso in cui perda il posto di lavoro, ma limitare l’uso improprio di contratti flessibili ed indurre le imprese a stabilizzare in rapporti subordinati i contratti in essere, invece di imporre una tassa (ulteriore) sul lavoro (flessibile) sarebbe stato opportuno premiare il lavoro subordinato con un incentivo applicato al suo costo, ovvero iniziare davvero un percorso di riduzione del cuneo fiscale ed in particolare degli oneri contributivi pagati dalle imprese, piuttosto che porre ulteriori tasse sul lavoro e sulla produzione di reddito. Si può obiettare che tale operazione sarebbe costosa per lo Stato e quindi per i conti pubblici, tuttavia si deve anche osservare: non è forse la crescita che consente a parere di tutti il rientro dal debito? E quindi non si vuole con la riforma del mercato del lavoro favorire la fase due, quella della crescita appunto, dopo la fase uno, quella dei segnali rassicuranti al mercato? Con la riduzione dei costi contributivi, di certo i posti di lavoro non verrebbero tagliati ed in modo progressivo il nuovo istituto dell’ASpI sarebbe finanziato dai maggiori posti di lavoro. Se invece la crescita non c’è, allora non c’è per i contratti subordinati e neppure per quelli flessibili, e quindi l’ASpI non si (auto-)finanzia. Ed il debito continua a crescere. Non credo che una ulteriore tassa sul lavoro favorisca la crescita; forse una tassa sulle rendite (finanziarie e sui patrimoni) produce tale effetto, non certo una ulteriore tassa su chi produce reddito e ricchezza reale.