II parte. Da ripartizione a contribuzione: un passaggio pieno di difficili ostacoli affioranti e di agguati imprevedibili
Una compagnia di assicurazione deve prevedere l’andamento demografico ed economico per valutare la propria sostenibilità futura, i fondi di garanzia che deve accantonare. Nell’immediato nel passaggio dal sistema a ripartizione a quello a contribuzione cambia solo l’ammontare delle pensioni future. Onorato Castellino usava ribadire che il passaggio da un sistema a contribuzione a uno a ripartizione può avvenire in un giorno. Il passaggio opposto può richiedere da mezzo secolo a un secolo, a seconda della situazione economica, perché gli attivi da investire bisogna accumularli. Quando il passaggio è stato deciso molti pensavano che ci fosse il vento in poppa, ma non hanno trascurato di affidare alla ripartizione di fatto che continuerà per decenni, le gestioni separate, privilegiate e insostenibili, di cui abbiamo parlato.
Può darsi che il passaggio sia stato un errore strategico. La ripartizione è, dopo tutto, un’ovvia solidarietà intergenerazionale, della cui mancanza ci si lamenta. È vero che se i salari e gli stipendi calano, se i lavoratori diminuiscono, chi paga i contributi oggi avrà una pensione più bassa di una equivalente attuale, a prezzi costanti. Ma questo avviene altrettanto col sistema a contribuzione. A meno che non si pensi che l’Inps sia destinata a diventare residuale e i fondi pensione privati o di categoria in futuro faranno i soldi investendo sui derivati e gli hedge funds a Wall Street.
In ogni caso, sistema di calcolo delle pensioni a parte, il modello di previsione usato è il Modello degli andamenti gestionali attualizzati per sorteggio, Magis. Si estrae a sorte un campione di assicurati – le iniziali dei cognomi che empiricamente rappresentano meglio l’universo – di un sessantesimo del totale e si costruisce il modello sugli andamenti nel tempo.
Un problema per la previsione è l’impossibilità, con le fonti attuali dell’Istituto, di distinguere i contribuenti silenti, che non versano in quel momento, dai morti. Per questo motivo, anche il modello Whip – Work histories Italian panel – di Bruno Contini per il calcolo del passaggio dal lavoro alla disoccupazione o al lavoro nero dei giovani maschi, su dati Inps, non riesce a tener conto dei morti. L’Inps sa che un assicurato è morto solo se si attiva una pensione di reversibilità. Dei pensionati lo sa (salvo frodi, di cui il Giappone è un esempio mondiale, diventato notizia: una ricerca sugli ultracentenari ha scoperto che erano ultramorti) perché finisce la pensione diretta. Non è una sottigliezza perché è importante, per l’equità del sistema, sapere se categorie particolari – i lavoratori manuali, i lavoratori dipendenti, i disoccupati – muoiono prima di altre categorie o durante l’età di lavoro.
Più importante ancora è la previsione demografica. Bisogna stimare non solo i morti, ma anche i nuovi residenti in età di lavoro. Le pensioni nel 2010, di Ermanno Pitacco, uscito nel 1989, fondava la propria previsione, come è diventato evidente l’anno scorso, su una popolazione presente sbagliata per difetto di più di 4 milioni – gli immigrati. I demografi non possono estendere le loro proiezioni, più sicure delle previsioni perché si basano sulle caratteristiche reali dei presenti, a chi non c’è. Ma, in un mondo che si muove, non è la popolazione presente che determina l’offerta di lavoro e limita la domanda, ma la domanda di lavoro che determina l’offerta e la popolazione presente. Il calcolo è inevitabilmente più incerto, ma bisogna tentarlo. L’errore massimo che si possa fare nel costruire un modello è far finta che le cose che non si possono misurare o calcolare facilmente non esistano. Non è una considerazione ottimistica. Quando la domanda di lavoro scende, come ora, una parte di popolazione diventa eccedente; c’è un freno oggettivo alla immigrazione, e quindi un freno all’aumento dei giovani adulti, una spinta alla crescita del tasso di dipendenza. L’emigrazione italiana fu bloccata non da Mussolini, che pensava che il numero fosse potenza, ma dalla crisi del ’29. Anche per questo, non solo per i conti pubblici, ma anche per il tasso di dipendenza, non bisogna frenare l’economia scoraggiando l’immigrazione.
Sono una ricaduta del modello, o un abuso del modello, le considerazioni sul livello delle pensioni attuali, rispetto ai contributi versati, e il livello accettabile delle pensioni future, anche da parte di persone molto competenti e autorevoli. Un articolo recente dell’attuale Ministro Elsa Fornero, ripreso da “la Repubblica” del 29 novembre, sostiene che i contributi Inpdap di un pensionato tipo coprono solo una frazione della pensione percepita. Come fa a dirlo? Quei contributi sono stati versati in un paese assai diverso da quello attuale, con un reddito pro capite molto più basso; e non sono stati investiti. Sono andati a coprire in contemporanea le pensioni di altri pubblici dipendenti del paese di allora. Come si fa a decidere a che tasso attualizzarlo, anno per anno? Si usa il deflatore del Pil’ Si usa un tasso convenzionale da aggiungere al deflatore? Si usa il tasso convenzionale e basta? Si usa la formula usata per il sistema contributivo? Ignorare la crescita del reddito medio reale e l’inflazione, non nominarle neppure, ed emergere con una cifra certa, come se fosse ovvia e non puramente convenzionale, rasenta la magia o la pubblicità ingannevole.
Questioni di equità
La crisi c’è; le difficoltà del sistema produttivo italiano, anche prima della crisi, sono note. Non ci si può nascondere dietro un dito. Se da 60 a 30 anni fa l’Italia è cresciuta e si è posta il problema di ripartire la nuova ricchezza prodotta dall’industria anche su chi non l’aveva prodotta con un Sistema sanitario nazionale universalistico, la Pubblica istruzione, il miglioramento dei servizi, le spese di urbanizzazione, le autostrade, le pensioni di invalidità, anzianità e vecchiaia; si capisce che se la ricchezza diminuisce, o smette di crescere, bisogni ricalibrare tutto.
Avremmo potuto comportarci diversamente. Avremmo potuto essere più aperti e accoglienti verso l’immigrazione straniera, diventata indispensabile dal punto di vista demografico, sociale, economico. Avremmo potuto aprire all’estero il sistema della ricerca e della istruzione superiore. Avremmo potuto mantenere alcuni dei settori produttivi che abbiamo chiuso o inventarne di nuovi. Ma, se si discute di pensioni, è fuori tema parlare di ricerca e produzione. Dobbiamo però evitare che il subbuglio, le discontinuità, quelle inevitabili e quelle che potrebbero derivare da fallimenti e uscite dall’euro, aumentino le differenze, che sono già cresciute e sono tra le cause della crisi, premino i ricchi e potenti e distruggano i deboli. L’equità è il criterio più importante per qualsiasi misura concordata. Se poi le cose precipiteranno ci sarà conflitto, e sarà un’altra storia.
Si può parlare separatamente di equità sociale e di equità generazionale.
Per un sistema pensionistico equità sociale può voler dire mantenere il livello di vita raggiunto durante la vita attiva, ma non accentuarlo; anzi attenuarlo, perché i risparmi e gli investimenti si fanno durante l’età lavorativa. Il sistema delle promozioni in extremis nelle carriere direttive per accrescere le pensioni, cosa impossibile per i lavoratori manuali, violava l’equità. Non tener conto della diversa vita media a seconda della condizione sociale, se non per i lavori definiti usuranti, continua a violarla. È a metà tra la violazione della equità sociale e di quella generazionale abolire la soglia di inizio del calcolo a contribuzione. Sergio Cofferati, da Segretario generale della Cgil, sosteneva che bisognava accompagnare alla pensione col vecchio sistema la generazione che aveva cominciato a lavorare a 13 anni prima di calibrare le norme su quella che comincia a lavorare 10 anni dopo. La soglia di 18 anni di contribuzione non era solo un modo per rimandare il problema ai futuri, cosa pessima; era anche un modo per tener conto, cosa necessaria, di quei bambini lì diventati vecchi.
Ritardare l’età di pensionamento per il settore privato senza un reddito minimo garantito per i disoccupati è ben peggio di una riduzione o di un mancato adeguamento di tutte le pensioni, perché non si può mangiare, vestirsi e pagare l’affitto dando in pegno le pensioni eventuali future. In generale ritardare l’età di pensionamento senza una gradualità del passaggio, senza part time o cambiamento di attività, vuol dire badare solo alla cassa e distruggere la società.
Per un vecchio può essere accettabile che si ripercorra all’inverso la strada degli anni ’50-’70 e si portino i vecchi al livello dei giovani, i quali non guadagnano abbastanza, ma pagano la pensione ai primi; però solo se i giovani salgono, intanto. Altrimenti è un assurdo stridere di freni, che porta solo fuori strada. In Italia non ha funzionato, come in altri paesi, il pensionamento dei vecchi per favorire l’assunzione dei giovani. Evidentemente altrove non si sono limitati a pensionare. Figuriamoci come aprirà le porte ai giovani inchiodare i vecchi al posto di lavoro; sempre quello lì; se non sparisce.