La Cina comprerà una parte del debito pubblico italiano? È una strada da percorrere, ma le difficoltà del paese sono soprattutto nella scarsa credibilità del governo
Il 12 settembre il Tesoro ha venduto sul mercato 7,5 miliardi di Bot a un anno al tasso del 4,15%, due punti percentuali in più rispetto all’asta di tre mesi prima; il giorno successivo ha venduto circa 6 miliardi di Btp al tasso medio del 5,6%, un punto virgola sette in più rispetto a giugno. Il maggior costo annuale per interessi per il rinnovo di meno dello 0,7% del debito pubblico è stato di 250 milioni di euro, quasi 500 miliardi delle vecchie lire. Tale aumento dei rendimenti dei titoli è del tutto incompatibile con una qualsiasi prospettiva di equilibrio finanziario dello stato. Né la manovra “lacrime e sangue” che colpisce i cittadini e i ceti produttivi in discussione alla Camera, né l’inusuale intervento della Banca centrale europea sul mercato secondario dei titoli di stato sono finora riusciti ad arginare la fuoriuscita di capitali dal nostro Paese.
Il 13 agosto ho scritto su il manifesto e Sbilanciamoci.info che per evitare il default (la bancarotta) dello stato occorreva affiancare al risanamento finanziario e alla ripresa dell’economia reale interventi capaci di alleggerire il peso del rifinanziamento del debito in scadenza, in modo da ridurre il peso degli oneri finanziari sul bilancio pubblico. Ricordavo che capitali freschi non si raccolgono soltanto sui mercati finanziari e suggerivo che i grandi detentori di risorse finanziarie – la Repubblica popolare cinese in primo luogo – hanno interesse a sostenere il sistema finanziario internazionale per preservare la stabilità dei loro mercati di sbocco e sostenere il valore delle proprie riserve. Aggiungevo che un finanziamento a lungo termine del debito italiano da parte di un soggetto esterno all’eurozona avrebbe dato un segnale importante agli operatori sulla credibilità del nostro paese. Indicavo infine che l’accordo poteva avvenire all’interno di un piano di cooperazione internazionale utile anche al paese creditore e che lo stato italiano, se necessario, poteva concedere in pegno le quote di alcune imprese pubbliche.
Il Financial Times del 12 settembre ha dato la notizia che lo scorso 6 settembre ci sarebbe stato un incontro tra il ministro Tremonti e una delegazione di investitori cinesi; il colloquio avrebbe riguardato l’eventuale acquisto di un’importante quota del debito sovrano italiano con correlati investimenti in società strategiche, quali Eni ed Enel. L’Ansa aggiunge che l’indiscrezione giornalistica avrebbe aiutato l’euro a recuperare terreno nel mercato dei cambi e Wall street a chiudere in positivo.
L’azione del ministro Tremonti è un passo – forse tardivo – nella giusta direzione, necessario ma non sufficiente per evitare il fallimento dell’Italia, anche se le trattative avessero un rapido esito positivo.
Il fatto è che la situazione finanziaria del paese è trascinata a fondo da una pietra al collo più grave delle dimensioni del debito: pesa la totale assenza di credibilità del governo. Nelle ultime settimane i mercati hanno chiaramente segnalato che non si fidano del governo italiano; in assenza del sostegno della Banca centrale europea sui mercati secondari, il rifinanziamento del debito pubblico in scadenza sarebbe stato, con ogni probabilità, impossibile. Anche gli investitori, internazionali e nazionali, chiedono un cambiamento. Come gli amministratori di un’impresa devono essere sostituiti quando l’azienda è salvata dalla bancarotta, il governo di uno stato che scampa al default non per merito proprio deve prendere atto del fallimento e rassegnare quanto prima le dimissioni. Le voci sui mercati finanziari dicono che il semplice rimpiazzo del governo farebbe diminuire, immediatamente, lo spread rispetto ai titoli tedeschi di oltre 100 punti base. Che cosa aspettiamo a liberarci della pietra al collo?
articolo apparso su il manifesto il 14 settembre 2011