Per l’attuazione della “riforma” dell’università mancano 38 decreti: il governo non ha soldi né fretta, quel che gli interessa è depotenziare l’università
Si può supporre che, in mancanza di adeguata informazione, gran parte dell’opinione pubblica sia convinta che questo governo abbia realizzato un’epocale riforma dell’università italiana, riducendone gli sprechi, combattendo le baronie e i nepotismi. Una campagna mediatica molto ben organizzata ha convinto molti che l’università italiana è un luogo nel quale la principale occupazione dei professori è dare posti di lavoro a parenti. Sia ben chiaro che questi casi esistono, ma sia altrettanto chiaro che sono del tutto marginali e stigmatizzati dalla stessa comunità accademica.
A beneficio di chi non è addetto ai lavori, può essere utile rimarcare che la legge 240/2010 (la c.d. riforma Gelmini) è niente affatto attuata e che è molto probabile che non verrà attuata in questa legislatura e in questa forma. Affinché l’articolato normativo possa diventare pienamente operativo, occorre un non meglio precisato numero di decreti attuativi: sebbene possa apparire a dir poco strano, neppure le comunicazioni ufficiali del ministero li quantificano con esattezza. Sul sito del ministero, a fine luglio si leggeva: “dei 38 provvedimenti previsti (decreti legislativi, regolamenti, decreti ministeriali), 32 sono già stati firmati dal ministro e a breve saranno emanati anche i restanti 6. 7 decreti saranno approvati in via definitiva entro luglio e i rimanenti entro fine settembre”. Si capisce che occorrono 38 decreti attuativi e si legge che, complessivamente, saranno più di 38, inclusi non meglio specificati provvedimenti “rimanenti” (quali?). Contemperando i numeri governativi con quelli forniti dall’opposizione, è verosimile pensare che siano intorno ai quaranta. Ad oggi, soltanto uno risulta pubblicato in Gazzetta ufficiale.
Le motivazioni per le quali è ragionevole attendersi che la ‘riforma’ non andrà a regime (o che verrà rinviata alla prossima legislatura) sono fondamentalmente due.
1) La 240/2010 è una legge estremamente confusa che, da un lato, regolamenta in modo colbertistico, dall’altro, è estremamente vaga. Vaga a tal punto che, a sei mesi dalla sua pubblicazione in Gazzetta ufficiale, il Consiglio universitario nazionale ha fatto rilevare che non è ancora chiaro chi valuterà i professori che saranno sorteggiati per far parte delle commissioni per l’abilitazione nazionale. La legge prevede la valutazione dei loro curricula, ma appunto non individua il soggetto deputato a valutare. E’ anche una legge fatta male. Alcuni esempi: la disposizione che vieta a un docente universitario di partecipare ai concorsi per le abilitazioni nazionali nel caso in cui non abbia superato la selezione nelle tornate precedenti è stata respinta dal Consiglio di stato, con la motivazione (facilmente comprensibile anche per i non addetti ai lavori) che non si può impedire a nessuno di partecipare a un concorso pubblico. Il decreto sul diritto allo studio è fermo alla Conferenza stato-regioni: l’unica certezza è che da quella sede non arriverà la copertura finanziaria, demandata al governo. Misteri aleggiano sulla ratio che ha portato all’aggregazione dei settori disciplinari, ritenuti ‘eccessivi’ perché tautologicamente eccessivi (eccessivi rispetto a quale numerosità ‘ottimale’? calcolata come?).
2) Sussistono poi problemi di copertura finanziaria, che per una riforma pensata a costo zero, sono appunto problemi. Fra questi, i costi relativi alla messa in funzione dell’Agenzia di Valutazione della Ricerca (ANVUR), che dovrà disporre di sedi e personale qualificato per svolgere la propria funzione di valutazione della ricerca universitaria, i costi per le procedure di valutazione di ben 70mila studiosi italiani, da realizzarsi in 18 mesi, i costi per l’espletamento dei concorsi, per un importo complessivo che non è stato stimato su fonti ufficiali.
Va detto che ciò che realmente sta a cuore a questo governo è depotenziare il sistema formativo, mediante una riduzione dei finanziamenti alle università che non ha precedenti nella storia italiana. Dal 2008 al 2011 le somme stanziate per le università pubbliche sono passate da 7.41 miliardi di euro a 6.57 (-11.31%), per ridursi ulteriormente nel 2012 a 6.49 (-12.40) e arrivare nel 2013 con 6,45 miliardi (-12.95). Per questo governo, e per parte del mondo imprenditoriale, la formazione e la ricerca sono esclusivamente un costo. Ciò a ragione del fatto che, in un’ottica di breve periodo, con un sistema produttivo che, salvo rare eccezioni, non esprime domanda di lavoro qualificato (giacché non produce innovazioni), l’istruzione diventa inutile. Lo dimostra in modo inequivocabile l’operato del ministro Sacconi, impegnato a redigere un piano per l’apprendistato – per incentivare il “lavoro manuale” – e a convincere i giovani che studiare non conviene: la chiamano “inattitudine all’umiltà”. La cui traduzione è: volontà di studiare. Una tesi molto simile a quella sostenuta da Mandeville, che, nel 1723, scriveva: “per rendere felice la società è necessario che la grande maggioranza rimanga ignorante”. E il messaggio è passato, come sta a dimostrarlo il sensibile calo delle immatricolazioni. E come sta a dimostrarlo un sondaggio dell’associazione walk on the job, stando al quale oltre il 60% dei ragazzi intervistati dichiara che la ricerca scientifica è inutile.
La camera dei deputati, nella relazione tecnica del 29 giugno 2011, ha stimato un costo annuo per le procedure di abilitazione scientifica nazionale (pre-requisito per l’accesso alla docenza) pari a €17.000.000. Per quale ragione il ministro Tremonti, il ministro che ci ha spiegato che “la cultura non si mangia”, e che ha appena prodotto un’ulteriore manovra fiscale restrittiva, dovrebbe consentire questa spesa, ancorché modesta? Si può ricordare che il ministro Gelmini ha promesso concorsi per professore di seconda fascia ai ricercatori, nella fase più acuta della loro protesta. A distanza di sette mesi, la promessa rimane tale. Si consideri che, per legge, i ricercatori possono non svolgere attività didattica e che, a fronte di questo, si stima che, nel 2015, 14mila docenti su 57mila andranno in pensione. E’ difficile prevedere quali saranno gli effetti sull’offerta formativa, e sulla sua qualità, dal momento che il numero di corsi di studio è già stato ridotto e il ministero non prevede ulteriori riduzioni.
Ma, a fronte dell’immobilismo ministeriale, la neonata ANVUR è impegnata a produrre documenti di valutazione della ricerca scientifica interamente basati su criteri bibliometrici derivanti da database internazionali. Sia chiaro che la valutazione della ricerca va fatta, e peraltro è da troppo tempo che se ne parla senza realizzarla. Il problema consiste semmai nel come la ricerca scientifica viene valutata. Al di là delle questioni tecniche del caso, va ricordato che i criteri bibliometrici ai quali l’ANVUR si affida non sono stati costruiti con l’obiettivo di valutare i prodotti della ricerca, ma con l’obiettivo di orientare gli acquisiti di libri e riviste scientifiche da parte delle biblioteche universitarie. E va ricordato che tali criteri sono costruiti, perfezionati e offerti da imprese private, il cui legittimo obiettivo è il profitto. Vi è qui una questione di natura etica e una questione di natura sostanziale. Per quanto attiene alla prima, la domanda che ci si pone è: è giusto che la ricerca scientifica sia valutata da agenzie private che cercano – per questa via e, dal loro punto di vista, in modo del tutto legittimo – di monopolizzare il mercato dell’editoria accademica?1 Sul piano sostanziale, non è chiaro per quale ragione, nei documenti fin qui prodotti, l’ANVUR riconosca, seppure incidentalmente, che l’uso dei criteri bibliometrici può dar luogo a distorsioni2 e, tuttavia, ne propone l’adozione. Se il rischio di implementare un sistema di valutazione imperfetto esiste, non è più ragionevole abbandonare i criteri bibliometrici e far riferimento a criteri che in questo rischio non incorrono?3 Almeno in attesa del perfezionamento dei database ai quali si fa riferimento, e volendo, in prima applicazione, quantificare la produttività dei professori e ricercatori4, non è più ragionevole valutare la ricerca sulla base della numerosità della produzione scientifica? 5
1 V. http://gisrael.blogspot.com/2011/07/la-valutazione-delle-universita-inizia.html. 2 Sulla questione si rinvia a A. Figà Talamanca, (2002). The impact factor in the evaluation of the research. “Bulletin du Groupement International pour la Recherche Scientifique en Stomatologie et Odontologie”, Vol 44, No 1.Si veda anche http://siba2.unile.it/sinm/4sinm/interventi/fig-talam.htm, 3 In effetti, il rischio sussiste ed è elevato. E’ agevole verificare che utilizzando i registri informatici suggeriti dall’ANVUR, lo stesso autore compare x volte in uno e x+n volte nell’altro, spesso con pubblicazioni diverse. Il che può dipendere dalle politiche editoriali delle singole riviste, che possono scegliere di essere indicizzate in un repertorio e non in un altro; oppure dal fatto che, di norma, l’inclusione di una rivista in un repertorio richiede tempo. 4 (nella consapevolezza che una maggiore produttività non necessariamente comporta una maggiore qualità della ricerca; così come può essere vero il contrario. Non sempre i ricercatori che pubblicano poco pubblicano ‘meglio’) 5 E della sua qualità certificata dal fatto che le pubblicazioni su riviste siano state oggetto di referaggio (peer review), cioè siano state valutate da colleghi anonimi a chi sottopone un articolo a una rivista (e l’autore è anonimo al referee). L’adozione di sistemi di peer-review è di norma indicato nel frontespizio della rivista.